Vicenza, Domenica 27 Aprile 2025

Lo Studio Rebecca & Associati è uno studio di dottori commercialisti che opera in Vicenza dal 1972. Fondato da Giuseppe Rebecca, nel corso degli anni ha associato i colleghi che ora proseguono l'attività.

Presta attività di consulenza ed assistenza in tutti gli aspetti dell'operatività ordinaria e straordinaria di imprese ed enti in campo economico aziendalistico, giuridico, contabile e fiscale.

Nella costante ricerca di una approfondita conoscenza delle tematiche professionali, l'attività dello Studio si è da tempo estesa anche alle iniziative editoriali e convegnistiche.

di Simone Veronese, avvocato cassazionista dello Studio “Prospettiva Diritto” di Schio

 

 

1) Introduzione. Il caso.

 

Come spesso accade nella mia professione di avvocato, mi viene assegnato il ruolo ingrato di esporre le problematiche connesse alla successione nell’azienda nei casi di mancata adeguata “pianificazione” del passaggio generazionale ovvero del “passaggio di consegne” tra imprenditori nell’ambito familiare.

Le dinamiche, infatti, sono particolarmente complesse e le variabili sono tendenti all’infinito.

È quindi improbabile, in questo contesto, pensare di analizzare tutte le ipotesi ma, come spesso accade, nella realtà i fatti riescono a superare qualsivoglia immaginazione ed dall’esame dei casi sell’esperienza si trovano suggerimenti importanti.

Per rendere più comprensibile ma, soprattutto, meno didattico affrontare le questioni che ci interessano, propongo l’esame di un caso pratico, una fattispecie di cui la giurisprudenza ha veramente avuto modo di interessarsi, anzi si sta tutt’ora interessando.

L’affrontare questo caso renderà possibile conoscere almeno tre o quattro delle innumerevoli problematiche che, in materia di successione correlata a partecipazioni aziendali, capita di dover affrontare.

Userò, ovviamente, dei nomi di fantasia.

Il caso è il seguente: Tizio è un imprenditore; ha sposato Tizia ed, al momento del matrimonio, ha adottato il regime della comunione dei beni (non dobbiamo stupirci, all’epoca del matrimonio, infatti, Tizio e Tizia erano molto innamorati e, soprattutto, non potevano immaginare né che Tizio avrebbe intrapreso un’attività imprenditoriale né che la stessa avrebbe avuto il notevole successo attuale); Tizio e Tizia hanno avuto due figli, Primo e Secondo; Primo e Secondo lavorano entrambi in azienda; qualche anno fa, non troppi, Tizio ha però conosciuto un’altra donna, Sempronia, dalla quale è nata una figlia, Nevia, minore; Tizio e Tizia hanno avviato le pratiche della separazione, purtroppo giudiziale, che non si è ancora conclusa, anzi i due non sono ancora comparsi avanti il Presidente del Tribunale per la prima udienza.

Tizio muore tragicamente il 14 marzo 2008.

Forse perché consapevole delle complicazioni create negli ultimi periodi della sua vita, Tizio ha lasciato un testamento, con il quale ha cercato di tutelare Sempronia.

Nel testamento ha dichiarato di lasciare a Sempronia la quota della disponibile della sua eredità.

Ma andiamo con calma. Vi invito, quindi, a mettervi nei panni dell’avvocato e ricevere in studio uno degli eredi di Tizio per analizzare il caso e risolverne le conseguenze.

Tizio ha lasciato un cospicuo patrimonio realizzato dopo le nozze e costituito dall’azienda, esercitata sotto forma di una s.r.l., e da una serie di immobili, intestati ad una società di persone.

Si tenga presente che Tizio aveva donato ai figli Primo e Secondo alcune quote della s.r.l., nella speranza di motivarli in questo modo a lavorare in azienda.

2) La prima questione: la comunione legale tra coniugi nelle quote di partecipazione alla società

Per il nostro sistema giuridico le società sono “tipiche” ovvero possono essere solo quelle previste dall’art. 2249 del codice civile in un numero chiuso e si distinguono in due grandi sistemi: le società di persone (s.s., s.n.c. e s.a.s.) e quelle di capitali (s.r.l., s.p.a., s.a.p.a.).

Per quel che interessa in questa sede è importante comprendere se le partecipazioni alla società di Tizio, di persone o capitali che fosse, possa ritenersi divenuta parte della comunione legale con Tizia, ovvero se alla apertura della successione gli eredi possano avere pretese successorie sull’intera partecipazione ovvero solo sul 50%, poiché la residua parte sarebbe già in proprietà di Tizia.

La risposta non è semplice né scontata.

Le posizioni della dottrina e della giurisprudenza sono altalenanti e non vi sono assolute certezze.

Il caso in cui si tratti di partecipazione a società di persone rispetto a quella a società di capitali dovrebbe comportare delle sostanziali differenze.

Il buon senso e dotti autori (tra i quali Francesco Galgano) hanno evidenziato come sia ben possibile che la partecipazione ad una società di capitali, ove l’aspetto preponderante può essere il solo capitale investito (tanto che nella nostra società, purtroppo, la stessa partecipazione azionaria viene considerata investimento finanziario) diventi oggetto di comunione legale, mentre sarebbe più complesso ipotizzare la costituzione di una comunione legale in società di persone, dove l’aspetto fiduciario, del c.d. intuitu personae, pare essere preponderante e meritevole di salvaguardia.

Questa impostazione è invece incredibilmente smentita dalla Corte di Cassazione che, con sentenza del 02.02.2009 n. 2569 [1], attualmente non ancora “smentita”, ritiene che anche la quota sociale di una società di persone riveste i caratteri di un bene mobile che, ai sensi degli artt. 810 e 812 c.c., costituisce una cosa immateriale che, come tale, può formare oggetto di diritti.

La Cassazione ha quindi chiarito che “l’iniziale partecipazione di uno dei coniugi ad una società di persone (…) rientra conseguentemente tra gli acquisti che, a norma dell’art. 177 c.c. lett. a), costituisce oggetto della comunione legale tra i coniugi, anche se effettuati durante il matrimonio ad opera di uno solo di essi, e non beni personali”.

Quindi, tornando al nostro caso, è ben evidente che la sig.ra Tizia, che probabilmente non aveva a buon cuore la serenità di Sempronia, nel caso di specie ha promosso un’azione giudiziale svolgendo una domanda tesa ad accertare e dimostrare che il regime di comunione dei beni con Tizio si è sciolto solo con la morte dello stesso e non prima.

Si deve ricordare che il matrimonio tra Tizio e Tizia, al momento dell’apertura della successione, produceva tutti i suoi effetti.

Infatti ai sensi dell’art. 191 c.c., come recentemente novellato dalla Legge 06.05.2015 n. 55, il regime di comunione si scioglie o con la comparizione delle parti avanti il Presidente del Tribunale, che nel caso di specie non era ancora avvenuto, ovvero con la morte di uno dei coniugi.

Tizia, quindi, in forza dell’orientamento giurisprudenziale sopra indicato, ha mosso domanda tendente a dimostrare che solo il 50% delle partecipazioni di Tizio sono cadute in successione, essendo lei comproprietaria delle quote della s.r.l. e della società di persone detenute da Tizio, e ciò in forza del regime della comunione legale.

3) Altre questioni: il testamento; la collazione; “l’automatismo processuale” della collazione; il valore dell’azienda ai fini della collazione.

Per l’art. 457 c. c. la successione si devolve per legge o per testamento.

Ai sensi dell’art. 536 c.c., ciascuno di noi può disporre del proprio patrimonio per testamento. Non è una libertà piena e completa: il codice civile prevede, a differenza di altri stati stranieri, il dovere di riservare ad alcuni soggetti, in sostanza moglie e figli, una quota (la c.d. legittima) e lascia liberi di disporre a proprio piacimento di un’altra parte (la c.d. disponibile).

Nel caso di specie Tizio ha lasciato un laconico testamento con cui ha disposto a favore della “compagna” Sempronia la sua disponibile, pari al 25% del suo patrimonio”.

A Tizia è quindi andata la legittima pari al 25% del suo patrimonio mentre ai figli Primo e Secondo e Nevia, in quote tra loro uguali, il 50% del patrimonio.

A seguito della successione di Tizio, quindi, abbiamo già assistito ad un terremoto, ad una “polverizzazione” nel suo patrimonio:

- Tizia, in forza del regime di comunione, pretende di essere già titolare del 50% anche delle quote di partecipazione societarie;

- Tizia ha ereditato la legittima pari al 25%;

- Primo, Secondo e Nevia sono divenuti proprietari del 16,67 % ciascuno;

- Sempronia del 25% in forza del testamento.

Ovviamente Sempronia non ha preso di buon grado il fatto che Tizia abbia agito per ridurre, in forza della comunione, il c.d. relictum del de cuius, ossia quanto Tizio aveva lasciato.

Reagisce e impugna le donazioni delle quote della s.r.l. che Tizio aveva fatto ai figli Primo e Secondo.

In sostanza Sempronia, anche per conto della minore Nevia, sostiene che il valore della società a responsabilità limitata da loro detenuta con il padre è talmente alto che chiede a Primo e Secondo di computarlo a titolo di eredità poiché essi hanno ricevuto molto di più rispetto a quanto a loro spettante e, soprattutto, che tale donazione riduce la quota a lei stessa dovuta a titolo di disponibile e quella spettante a Nevia a titolo di legittima.

In effetti il ragionamento di Sempronia è corretto. Il nostro sistema giudiziario ritiene la donazione come una sorta di anticipo della futura eredità e, quindi, prevede che la stessa debba essere riconsiderata ai fini dell’eredità.[2]

Si deve quindi procedere alla riunione “fittizia” – ex art. 556 c.c. – del patrimonio del de cuius al momento della morte con quanto lo stesso aveva donato in vita. Alla luce di questa riunione diviene possibile determinare quale fosse l’entità e la consistenza della quota disponibile e di quella legittima.

Nel caso in cui si accertasse la violazione della quota di legittima spettante ad uno dei soggetti legittimari (in questo caso la figlia Nevia) le quote degli altri eredi andranno ridotte e i beni da loro percepiti “in eccesso e/o a danno della quote del coerede legittimario” andranno restituiti, ovvero collazionati, all’eredità – ai sensi dell’art. 737 c.c..

In presenza di donazioni fatte in vita dal de cuius, la collazione ereditaria, come vedremo per conferimento del bene in natura ovvero per imputazione, è uno strumento giuridico volto alla formazione della massa ereditaria da dividere al fine di assicurare l’equilibrio e la parità di trattamento tra i vari condividenti, così da non alterare il rapporto di valore tra le varie quote, da determinarsi, in relazione alla misure del diritto di ciascun condividente, sulla base della sommatoria del relictum e del donatum al momento dell’apertura della successione.

In sostanza lo scopo della norma è quello di garantire a ciascuno degli eredi la possibilità di conseguire una quantità di beni proporzionata alla propria quota

È interessante notare che, per la giurisprudenza, l’obbligo della collazione sorge automaticamente a seguito dell’apertura della successione e che i beni donati devono essere conferiti indipendentemente da una espressa domanda dei condividenti, essendo sufficiente a tal fine la domanda di divisione e la menzione in essa dell’esistenza di determinati beni, facenti parte dell’asse ereditario da ricostruire, quali oggetto di pregressa donazione.

Incombe in tal caso sulla parte che eccepisce un fatto ostativo alla collazione l’onere di fornirne la prova nei confronti di tutti gli altri condividenti (CC 18.07.2005 n. 15131).[3]

Altrimenti detto: la collazione, in caso di divisione tra coeredi ed in presenza di donazioni, potrebbe essere considerata ed applicata d’ufficio dal giudice e spetta alla parte che ha ricevuto la donazione fornire la prova che il bene non era stato realmente donato o che vi siano altri motivi ostativi alla sua collazione.

Quindi, tornando al nostro caso, la massa ereditaria da dividere e su cui calcolare le quote spettanti ai vari eredi, è costituita da quanto lasciato in vita da Tizio, ossia il reluctum, e da quanto donato da Tizio ai figli Primo e Secondo, il donatum: è su tale massa che va calcolata la quota di legittima spettante a Nevia.

Quindi Primo e Secondo hanno sì legittimamente avuto una donazione dal padre ma dovranno computarne il valore delle quote della s.r.l. ricevute in donazione, in modo da determinare la consistenza “totale” della massa ereditaria ed addivenire a calcolare la quota di legittima della sorella Nevia, nata dalla relazione extraconiugale del papà, in modo che quest’ultima si veda attribuita una quota corrispondente al 16,67% della massa.

Per fare in modo che questo effettivamente avvenga, Primo e Secondo possono essere chiamati a restituire le quote ricevute, con le modalità che poi vedremo.

Nel corso del giudizio Primo e Secondo si difendono rilevando che quando Tizio donò loro le quote la s.r.l. era da poco costituita e conseguentemente non aveva un valore rilevante. Sostengono quindi che ai fini della valutazione della collazione deve farsi riferimento al valore della società al momento della donazione.

Quindi imputando tale valore, il patrimonio relictum sarebbe assolutamente predominante e la donazione non avrebbe minimante violato i diritti di Nevia.

Se così fosse i figli donatari non sarebbero chiamati a collazionare le quote della società nella eredità.

Si tratta di un argomento su cui il dibattito è piuttosto importante.

Il codice civile distingue tra la collazione di somme di denaro, di beni mobili e quella di beni immobili e disciplina per ciascuna tipologia di beni le modalità operative per compiere la relativa collazione.

Nel caso che ci interessa però troviamo delle peculiarità: l’azienda e le quote di partecipazione ad una società come vengono trattati? Quale valore verrà assegnato o attribuito alle quote di partecipazione alla società ed alla azienda ricevute in donazione ai fini della collazione con gli altri coeredi? Il valore che il bene aveva al momento della apertura della successione (ovvero la morte del de cuius) o quello che aveva al momento della donazione?

L’analisi delle altre fattispecie è importante per trovare una soluzione al nostro caso.

Precisiamo che la collazione dei beni immobili può avvenire in natura, ovvero con un vero e proprio trasferimento di beni a favore della massa ereditaria, o, a scelta del donatario, per imputazione (art. 746 c.c.).

L’imputazione si avrà anche se il bene immobile è già stato venduto e è venuto meno.

Invece la collazione di denaro o di altri beni mobili avviene sempre per imputazione, ovvero la determinazione del relictum e la formazione/determinazione della porzione di ciascun coerede si realizza tenendo conto del valore dei beni donati: la porzione che sarebbe spettata al coerede-donatario viene quindi ridotta in misura pari al valore del bene donato e trattenuto.[4]

Il problema che si pone in questi casi, è quello di effettuare la stima dei beni donati, al fine di stabilire quale sia il valore di riferimento da imputare nella porzione del coerede- donatario.

In proposito, l’art. 747 c.c., con riferimento ai beni immobili, adotta il criterio del riferimento al valore del bene all’apertura della successione, valore che va quindi determinato senza tenere in alcun conto delle variazioni di prezzo che successivamente esso abbia subito, sia a cagione del mutamento del suo valore sia a causa di modificazione del potere di acquisto della moneta nel frattempo intervenuto.

Si pone quindi un concreto problema di disparità di trattamento tra conferimento in natura e conferimento per imputazione, nel senso che, nella prima ipotesi, il bene è valutato al momento dell’avvenuta collazione (quando, cioè viene effettuato il conferimento), mentre nel secondo caso la valutazione si effettua in base ai valori esistenti al momento dell’apertura della successione, con la conseguenza che rimane al donatario l’eventuale maggior valore del bene al momento della divisione.

Il problema e la disparità sono ancor maggiormente accentuati nel confronto con quanto avviene nel caso di collazione del denaro.

Questa si attua naturalmente per imputazione ma applicando il principio nominalistico proprio delle obbligazioni pecuniarie: la somma da conferire deve dunque essere calcolata secondo il suo valore nominale, senza tenere conto della svalutazione della moneta tra il momento della donazione e quello della morte del donante.

Da ciò deriva che il donatario di somma si libera validamente dell’obbligo del conferimento mediante al pagamento di una somma di denaro di specie e quantità uguale a quelle a suo tempo ricevute.

Da ciò consegue che il coerede possa realizzare un considerevole vantaggio, se la liberalità ricevuta risale a periodi lontani nel tempo, stante l’irrilevanza della svalutazione monetaria nelle more intervenuta.

Proprio per questo motivo è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 751 c.c., in relazione all’art. 3 Cost. [5], ravvisandosi una disparità di trattamento di valore effettivo tra chi conferisce per imputazione l’equivalente in moneta del bene ricevuto e chi invece conferisce la somma di denaro, quale gli fu attribuita, giacché il primo vede diminuita la sua porzione di un valore in moneta corrente di gran lunga superiore alla diminuzione patrimoniale che subisce il secondo. [6]

Nel caso di specie, quindi, per lo stesso principio applicato prima, in relazione alla acquisizione nella comunione delle partecipazioni societarie, sicuramente dovranno essere collazionate alla massa ereditaria anche le donazioni delle quote societarie, tanto più che nel caso di specie si tratta di quote di partecipazione ad una società di capitali.

Ovviamente la collazione andrà compiuta per imputazione, avuto riguardo al valore delle quote al momento dell’apertura della successione (art. 750, primo comma c.c.).

A riprova di ciò si pensi che anche nel caso della donazione di un’azienda, intesa come l’insieme e/o il complesso unitario di beni destinati all’esercizio dell’impresa, si dovrà procedere alla collazione.

Per tale tipologia di beni, ovviamente, l’unica forma di conferimento non può che essere quella per imputazione, essendo essa sottratta ai criteri concernenti i singoli beni, mobili o immobili, che compongono il complesso aziendale.

In ordine alla azienda è sorta anche questione in ordine al valore dell’avviamento commerciale: secondo la dottrina prevalente, infatti, l’avviamento commerciale deve essere oggetto di un’autonoma collazione, distinta rispetto a quella effettuata per gli altri elementi che compongono l’azienda. Conseguentemente, se al momento dell’effettuazione delle operazioni collatizie l’avviamento esistente al momento della donazione si è dissolto, troverà applicazione l’art. 744 c.c., e nulla sarà dovuto dal donatario; nel caso invece in cui sussista ancora una parte dell’avviamento iniziale, si applicherà l’art. 750, terzo comma c..c, relativo alla collazione di cose deteriorabili, per cui il donatario dovrà conferire, mediante imputazione, solo quello che residuava del vecchio avviamento che esisteva al momento della donazione, rivalutato al momento della successione.

Nel caso di specie, quindi, Primo e Secondo saranno chiamati a collazionare le donazioni delle quote di partecipazione alla società che il padre aveva loro fatto.

Il tutto sarà oggetto di una complessa CTU, nel corso della quale i donatari cercheranno di mettere in evidenza il fatto che l’accrescimento di valore della società e dell’azienda è avvenuto per il loro merito ed i loro apporti.

4) Il triste fenomeno italiano: il diritto e la giustizia viaggiano a velocità ridotta e non sono in grado di fornire tempestive risposte alle esigenze aziendali.

Quello di cui ho accennato è un caso vero.

Tizio è morto nell’anno 2008. I suoi eredi non sono riusciti a trovare nessun accordo.

La causa, nella fase di primo grado, è tutt’ora pendente.

Nel frattempo ci sono state bagarre e pesanti procedure giudiziarie di contorno rispetto alla causa principale, quella avente ad oggetto la determinazione della consistenza delle quote di ciascun coerede ed alla divisione delle stesse.

Si è assistito alla nomina di un curatore speciale e di un custode delle quote delle società.

Il mercato è cambiato: mentre al momento del decesso di Tizio la sua azienda operava distribuendo utili, oggi opera con difficoltà, gli amministratori sono impossibilitati a compiere serenamente investimenti di rilievo e l’azienda perde posizioni rispetto alla concorrenza.

Gli stessi Primo e Secondo non sono attualmente motivati adeguatamente, in attesa della risoluzione delle controversie con Sempronia e Nevia che determinerà qual è la loro partecipazione alla società.

In effetti i tempi di funzionamento della giustizia in Italia non aiutano la definizione della questione.

I “dati statistici relativi all’amministrazione della giustizia in Italia” del servizio di Studio del Senato del maggio 2013 rilevano che un processo di primo grado di cognizione ordinaria aveva nell’anno 2011una durata di 1.127 giorni a cui sono poi da aggiungere 1.602 giorni per la fase di appello e 1.105 per la Corte di Cassazione.

Il totale è quindi di 3.834 giorni.

Dieci anni … poco più.

Sembra si tratti di un dato in leggera flessione … in futuro!

Al 31.12.2014 la Corte di Appello di Venezia, solo per quanto attiene al contenzioso civile ordinario, quindi escludendo le materie come il diritto del lavoro, fallimenti, previdenza ed assistenza e diritto di famiglia, aveva un carico pari a 10.197. in totale i fascicoli sono 13.696.

Il Tribunale di Vicenza 12.675 su un totale di 18.805.

È ovvio ritenere che un arretrato così importante, chiamato “Magazzino Pendenze Civili”, non verrà smaltito nel breve.

Lascio a voi considerare cosa è successo nello stesso periodo temporale di dieci anni alle aziende che conoscete.

Mi sembra che sia chiaramente emerso che:

- la materia di cui si discute è di notevole tecnicismo, studiata e generata in un’epoca in cui la velocità del sistema produttivo era molto ridotta e la complessità sociale attuale non era neppure ipotizzabile, un’epoca in cui la successione era concentrata in prevalenza su capitale immobiliare;

- le aziende, per la loro governance e dinamica operativa, difficilmente possono sopportare o tollerare la frammentazione del capitale che si ripercuote in rallentamenti delle fasi operative.

Si tratta di argomenti estremamente complessi e con potenziali ripercussioni in ogni ambito:

- da un lato quello familiare, con equilibri che non riguardano solo aspetti prettamente economici ed imprenditoriali;

- dall’altro quello aziendale, in cui assumono rilievo dinamiche legate ad organizzazione, organigramma, rapporti motivazionali ed economici, ambiti di potere.

In un tale contesto l’imprenditore deve essere avveduto e, anche con percorsi educativi e formativi, predisporre al meglio la successione.

Il mondo è cambiato anche se da un punto di vista legislativo il sistema è certamente da perfezionare.

Credo che, però, ci sia la necessità di avere piena consapevolezza del fatto che non si può affidare la soluzione di una successione/transizione ai principi “tradizionali” e sia necessario dedicare energie e risorse per costruire preventivamente una soluzione negoziale



[1] Questa è la vicenda: con atto notificato il 9 dicembre 1986, I.C. convenne davanti al Tribunale Ferrara la moglie S.G.M., dalla quale era separato consensualmente dal 29 gennaio 1986, e domandò la divisione dei beni della comunione legale esistente tra i coniugi, comprendendo in essi la partecipazione del 20% nel capitale della S. Ing. Giuseppe & C. Impresa Costruzioni S.p.A. (già s.n.c), di cui la moglie era titolare. La S. si costituì senza opporsi alla divisione, ma contestando che tra i beni comuni rientrasse la partecipazione societaria, e, intervenuti volontariamente nel giudizio il 22 ottobre 1994 S. G., padre della convenuta, e la società S. Ing. Giuseppe & C, con sentenza non definitiva del 25 ottobre 1999 il Tribunale ritenne la partecipazione esclusa dalla comunione legale e dispose la prosecuzione del giudizio per la divisione degli altri beni. La decisione, gravata dallo I., venne riformata il 15 gennaio 2004 dalla Corte di appello di Bologna, che, in accoglimento dell'impugnazione, dichiarò "che l'elenco dei beni della comunione comprende pure le quote di partecipazione di S.G.M. nella soc. Ing. S.", osservando, per quello che ora rileva, che erano di proprietà comune gli aumenti della partecipazione al capitale della società sottoscritti dalla S. in costanza di matrimonio con denaro contante o proventi degli esercizi precedenti, rientrando tra gli acquisti di beni di cui all'art. 177 c.c., lett. a), e non essendo provato che i conferimenti ad essi relativi fossero avvenuti con denaro del padre e costituissero delle donazioni indirette.

La motivazione della Corte segue il seguente percorso:

“Lo status di socio non attribuisce al partecipante ad una società di persone una posizione giuridica soggettiva qualificabile in termini di diritto di credito avente ad oggetto la restituzione del conferimento o di una quota proporzionale del patrimonio sociale, giacché, anteriormente al verificarsi di una causa di scioglimento della società o del vincolo sociale, è ipotizzabile in favore del socio soltanto una aspettativa economica, legata all'eventualità che, al momento dello scioglimento, il patrimonio della società abbia una consistenza attiva tale da giustificare l'attribuzione pro quota ai partecipanti alla società di valori proporzionali alla loro partecipazione.”

“La quota sociale va invece ricondotta nella nozione di beni mobili fornita dell'art. 810 c.c. ed art. 812 c.c., u.c., perché, essendo trasferibile a terzi inter vivos e mortis causa (cfr.: Cass. civ., sez. 2^, sent. 9 settembre 1997, n. 8784) ed assoggettabile anche ad espropriazione forzata (cfr.: Cass. civ., sez. 1^, sent. 11 luglio 1962, n. 1835), pur se per l'opponibilità del trasferimento alla compagine sociale occorre il consenso degli altri soci, costituisce una cosa immateriale che può formare oggetto di diritti.”

“L'iniziale partecipazione di uno dei coniugi ad una società di persone ed i suoi successivi aumenti, ferma la distinzione tra la loro titolarità e la legittimazione all'esercizio dei diritti nei confronti della società che essi attribuiscono al socio, rientrano conseguentemente tra gli acquisti che, a norma dall'art. 177 c.c., lett. a), costituiscono oggetto della comunione legale tra i coniugi, anche se effettuati durante il matrimonio ad opera di uno solo di essi, e non beni personali, ove non ricorra una delle ipotesi previste dall'art. 179 c.c..”

(…)

Quanto al primo rilievo, va evidenziato che, a norma dell'art. 2262 c.c., applicabile anche alle società in nome collettivo in forza del richiamo di cui all'art 2293 c.c., nella società di persone il singolo socio, a differenza di quanto previsto nell'art. 2433 c.c., per le società di capitali, ha diritto all'immediata percezione degli utili risultanti dal bilancio dopo l'approvazione del rendiconto e che del principio che ne deriva costituisce, ad esempio, applicazione il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 5, comma 1, (T.u.i.r.), che, sia pure a fini tributari, dispone che "I redditi delle società semplici, in nome collettivo e in accomandita semplice residenti nel territorio dello Stato sono imputati a ciascun socio, indipendentemente dalla percezione, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili".

Ne consegue che gli utili della società di persone, in caso di mancata distribuzione e di loro accantonamento, salvo che sussista una specifica delibera sociale in senso contrario - che nella specie non è stata allegata - non costituiscono un incremento del patrimonio della società, ma conservano la loro originaria natura di crediti dei singoli soci nei confronti della società, e che il loro utilizzo per un aumento del capitale sociale costituisce unicamente una particolare modalità dell'apporto che ad esso abbiano dato i singoli soci.

[2] Cass. 27 aprile 2012, n. 6576: La collazione di cui all’art. 737 c.c. è un istituto proprio della divisione ereditaria con il quale i discendenti e il coniuge che accettano l’eredità conferiscono nell’asse ereditario (in natura o per imputazione) quanto ricevuto dal defunto in donazione. È obbligatoria per legge salvo che il donatario ne sia dispensato dal donante nei limiti della quota disponibile. L’istituto trova il suo fondamento nella presunzione che il de cuius, facendo in vita donazioni ai figli e al coniuge, abbia voluto compiere delle attribuzioni patrimoniali gratuite in anticipo sulla futura successione. Pertanto, al momento della morte del disponente, il bene donato dovrà essere considerato quale acconto, se non addirittura come saldo, della quota ereditaria.

[3] Corollario a tale principio il fatto che in mancanza di formazione di una comunione ereditaria non sorge neppure l’obbligo di collazione: Cass., 17.11.1979, n. 5982: se l’asse ereditario sia stato esaurito con donazioni o con legati, o con gli uni e con gli altri insieme, così che manchi un relictum, non è luogo a divisione e, quindi, neppure a collazione, salvo l’esito dell’eventuale azione di riduzione.

[4] Cass., 27.02.1998, n. 2163: la collazione per imputazione costituisce una fictio iuris per effetto della quale il coerede che, a seguito di donazione operata in vita da de cuius, abbia già anticipatamente ricevuto una parte dei beni a lui altrimenti destinati solo con l’apertura della successione, ha diritto a ricevere beni ereditari in misura ridotta rispetto agli altri coeredi, tenuto conto del valore (attuale) di quanto precedentemente donatogli, senza che i beni oggetto della collazione tornino materialmente e giuridicamente a fare parte della massa ereditaria, incidendo i medesimi esclusivamente nel computo aritmetico delle quote da attribuire ai singoli coeredi.

[5] Art. 3 Costituzione Italiana: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese.”

[6] Più in generale, la questione è stata sollevata con riferimento alle differenti situazioni in cui si trovano i donatari di beni immobili, beni mobili o di somme di denaro che, a seconda del tipo di imputazione prescelto o obbligato, subirebbero un trattamento diverso nel momento dell’adempimento dell’obbligo di collazione. Tale questione è stata tuttavia ritenuta infondata dalla Corte Cost. 25.06.1981, n. 107 in quanto, da un lato, la situazione in esame è equiparabile a quella di altri rapporti obbligatori (quale ad esempio il mutuo), in cui è tenuto fermo il principio della immutabilità del bene moneta; dall’altro, appare ragionevole la diversità di trattamento tra le due ipotesi della collazione per imputazione dell’equivalente e quella della collazione del denaro, la quale è piuttosto assimilabile ad un conferimento in natura. Tale impostazione è stata successivamente confermata da Corte Cost., 21.01.1988, n. 64.

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di Giuseppe Rebecca, Dottore Commercialista, Studio Rebecca & Associati, Vicenza – Schio

 

1) Introduzione

I patti di famiglia sono uno strumento giuridico relativamente nuovo, introdotto in Italia dal 2006 (L. 14/2/2006 n. 55, entrata in vigore il 16 marzo 2006) su istanze del mondo imprenditoriale.

L’obiettivo primario era quello di consentire agli imprenditori un passaggio generazionale delle loro aziende facile e senza troppi intoppi.

Il patto di famiglia nasce con riferimento a raccomandazioni della Comunità Europea (94/1069).

Come sempre, e a maggior ragione quando è tirata in ballo l’Europa, è interessante leggere il contenuto di quanto richiamato.

Ora, al di là della vetustà delle raccomandazioni, appunto del 1994 (per 12 anni tutti se ne erano dimenticati, salvo qualche Commissione di Studio, come ad esempio quella del Prof. Rescigno), la stessa è per lo più indirizzata a dare indicazioni di agevolazioni fiscali. E queste, in parte, già erano state da tempo recepite dall’Italia.

Manca ancora, invero, l’esenzione, anche solo parziale, della plus su cessione di azienda da imprenditori over 55 anni e le agevolazioni per il reinvestimento della plus, come pure le agevolazioni per la cessione dell’azienda ai dipendenti, previsioni che la raccomandazione fa.

Quanto al patto di famiglia, l’unico richiamo possibile è solo allo spirito generale, quello cioè di agevolare il passaggio delle aziende, nulla più.

La successiva comunicazione europea (98/C 93/2002) è entrata più nello specifico, a tutela dell’impresa e del suo passaggio, sempre però senza toccare la questione delle quote di legittima.

La situazione di base è nota e da tutti condivisa; quando le aziende passano ai figli, molto spesso si vengono a creare problematiche di vario tipo, e ben oltre metà delle aziende non superano il primo passaggio, mentre solo il 15% supera il secondo.

Questo accade in Italia, ma non solo da noi. Le statistiche note danno più o meno gli stessi risultati anche all’estero.

Ciononostante il patto di famiglia non decolla, tra gli imprenditori, un po’ per caratteristiche proprie degli imprenditori stessi, un po’ per le problematiche che in ogni caso ancora sussistono ed un po’ anche perché, in definitiva, pare non tutelare sufficientemente i legittimari non assegnatari. Escluso che essi, partecipanti all’atto, rinuncino a quanto loro spettante (non si vede poi perché la stessa norma - art. 768 quater, 2° comma - preveda tale ipotesi, tra l’altro unico caso possibile in materia di diritto successivo, quasi come fosse il caso normale o comunque il più frequente in presenza di aziende), si possono venire a creare delle situazioni critiche, ai fini della riduzione e/o collazione, quando la liquidazione dei legittimari è fatta direttamente dal disponente, oppure in presenza di donazioni a terzi.

Parrebbero problematiche non risolvibili, ad oggi.

Quali le cause di questo insuccesso dell’istituto dei patti di famiglia?

Molteplici, e di diversa origine. Si possono riassumere in due macro aspetti:

- da una parte, la complicata applicazione pratica;

- dall’altra, e soprattutto, si potrebbe dire, il mancato coordinamento con la riforma del diritto successorio. Senza una variazione di questo, il patto di famiglia non potrà mai sicuramente decollare.

2) Il difficile passaggio

Le difficoltà nel passaggio sono spesso imputate alle norme o meglio alla carenza di norme che agevolino appunto questo passaggio.

Si tratta di una tesi diffusa, ma a nostro avviso errata e comunque in ogni caso fuorviante.

E’ pacifico come una buona legge possa agevolare il passaggio generazionale, ma da sola non costituisce certamente elemento sufficiente.

Il momento del passaggio di una azienda è caratterizzato da così tante problematiche, di tutti i tipi, che l’aspetto normativo a noi pare il meno importante di tutti.

Ai figli è richiesto desiderio di subentrare, sono richiesti entusiasmo, competenza, carattere, e in caso di fratelli, predisposizione all’accordo o comunque una divisione di competenze e, se possibile, anche del patrimonio.

E qui si tocca un tasto che potrebbe essere il problema di base.

Il patto di famiglia ha rappresentato, come si è detto, il primo tentativo senza successo[1], in Italia, di agevolare giuridicamente il passaggio delle aziende ai figli, o meglio, a un figlio.

Da un punto di vista fiscale, la questione era già da tempo stata affrontata in modo adeguato, così da non costituire più un problema.

Ora si può ritenere “ condivisibile l’idea che l’intervento del legislatore in materie afferenti il diritto dell’impresa debba sottrarsi alla retorica della liberazione delle energie naturali dell’impresa da vincoli legislativi che ne restringono la libertà (secondo lo slogan “meno diritto, più mercato”), non possiamo allora condividere il messaggio “promozionale” che ha salutato l’introduzione del patto di famiglia nel 2006, in base al quale la novella avrebbe avuto il pregio di liberare le imprese dai vincoli del diritto ereditario italiano offrendo loro uno strumento con cui liberamente programmare i destini dell’impresa in previsione della morte dell’odierno imprenditore [2].

La normativa sul patto di famiglia è complicata, e comunque senza la revisione del diritto successorio rimane di pratica impossibile applicazione. E’ di tutta evidenza come l’estensore della norma non si sia mai posto nei panni delle parti possibilmente interessate ad un patto di famiglia. Allora il dibattito dovrà vertere sul diritto ereditario e sulla sua possibile riforma. Se ne parlerà più avanti.

3) La struttura del patto di famiglia

3a) Generalità

Con il patto di famiglia si è consentito all’imprenditore, o al titolare di partecipazioni (si ritiene di controllo), di cedere in vita la propria azienda o le partecipazioni a un figlio, e ciò con effetto immediato (salvo condizioni particolari, pur possibili) con obbligo del figlio di procedere alla liquidazione, eventualmente anche differita, degli altri eredi chiamati appunto “non assegnatari”.

Già in questa previsione sta tutto l’insuccesso dell’istituto, e non poteva che essere così.

Da quanto risulta, pochi sono i patti di famiglia stipulati in Italia, dal 2006. Abbiamo avuto occasione di analizzarne qualcuno, ed erano più un tentativo di soluzione che una soluzione vera e propria. Intanto si cedevano solo in parte le partecipazioni della società di famiglia, e solo per la nuda proprietà, trattenendo quindi quota parte in usufrutto e poi, in via del tutto cautelativa, era stata inserita anche una clausola che dava al proponente la possibilità di recesso. Tenuto conto dell’andamento aziendale, ove entro un periodo di qualche anno successivo alla stipula del patto i risultati economici non fossero stati sufficientemente remunerativi, era stata prevista la revoca del patto; i risultati erano legati ad una serie specifica di indici e di parametri, non superando i quali il disponente si era riservato appunto di “riprendere” le partecipazioni.

Non pare esser questo lo spirito dei patti di famiglia.

3b) Le disposizioni

L’imprenditore (titolare di azienda oppure di quote di controllo di società) può assegnare l’azienda o le partecipazioni a uno o più eredi, escludendo gli altri legittimari, tra cui in ogni caso il coniuge.

Così prevedono gli articoli dal 768 bis al 768 octies del codice civile, introdotti dalla legge n. 55/2006.

La norma così precisa: “ è patto di famiglia il contratto con cui, compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare e nel rispetto delle differenti tipologie societarie, l’imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l’azienda, e il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote, ad uno o più discendenti ”.

Il disponente può così attribuire, in vita, l’azienda e/o le partecipazioni a uno o più legittimari, ponendo a carico di questi la liquidazione degli altri legittimari, i cosiddetti legittimari non assegnatari. E’ così consentita, per la prima volta, in Italia, una specifica deroga al divieto dei patti successori.

La struttura, come anticipato, non ha avuto alcun successo.

Ne analizziamo qualche aspetto problematico, per poi, nelle conclusioni, riprendere varie ipotesi di riforma.

I punti controversi ancor oggi sono i seguenti:

1) a chi compete effettuare la liquidazione ai legittimari non assegnatari? Può sostituirsi il disponente, al beneficiario?;

2) i beni oggetto di patto di famiglia sono da ricomprendere o meno ai fini del calcolo di eventuali lesioni della quota dei legittimari?;

3) quali effetti su donazioni precedenti?;

4) altri aspetti.

Li analizziamo specificatamente.

4) A chi compete effettuare la liquidazione ai legittimari non assegnatari?

 

Nel patto di famiglia il disponente destina l’azienda a un erede legittimario. A chi spetterà liquidare gli eredi legittimari non assegnatari dell’azienda? La norma prevede che ciò spetti all’assegnatario; potrà essere sostituito dal disponente?

Taluno sostiene la tesi della possibilità di liquidare i legittimari non assegnatari da parte del disponente, facendo riferimento alla relazione al disegno di legge, che appunto ciò prevede.

Però, ove questo fosse l’orientamento, la problematica della valutazione dell’azienda e/o delle azioni o quote societarie che, ai fini del patto famiglia, deve essere fatta con riferimento alla data della stipula dello stesso patto di famiglia, e nemmeno potrebbe essere diversamente, mal si concilia con questa impostazione.

Il procedimento proposto dal patto di famiglia (i legittimari non assegnatari, se non rinunciano, sono liquidati dei loro diritti) funziona bene solo con liquidazione da parte del beneficiario; l’istituto non potrà invero mai funzionare, da un punto di vista pratico, con la liquidazione da parte del disponente, anche se in realtà così si sta facendo, nella pratica. E ciò non per gli effetti del momento, ma per quanto potrà accadere all’apertura della successione.

Relativamente alla compensazione così prescrive la norma (art. 768 quater, 2° comma, c.c.): “Gli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie devono liquidare gli altri partecipanti al contratto, ove questi non vi rinunzino in tutto o in parte, con il pagamento di una somma corrispondente al valore delle quote previste dagli articoli 536 e seguenti; i contraenti possono convenire che la liquidazione, in tutto o in parte, avvenga in natura”.

Ne consegue che dapprima si dovrà determinare il valore dei beni oggetto della liquidazione (azienda e/o partecipazioni), dopodiché si dovranno calcolare le correlate quote spettanti ai legittimari per legge ed infine determinare le modalità di liquidazione (denaro e/o natura). Pacificamente la liquidazione è obbligatoria, e non poteva che essere così, anche se ne è consentita, e a dire il vero non se ne comprende appieno la ragione, la rinuncia, in tutto o in parte, da parte dei legittimari.

La norma prevede che la liquidazione ai legittimari non assegnatari spetti agli assegnatari.

Questa ipotesi è stata subito criticata dalla dottrina, poiché nella realtà il beneficiario potrebbe non possedere risorse sufficienti per provvedere alla compensazione. L’assegnatario, anche per la prevedibile giovane età, di norma ha un patrimonio limitato. E’ ben vero che gli è comunque concesso un determinato lasso di tempo per reperire cespiti da monetizzare o somme di danaro da destinare alla liquidazione dei non beneficiati dal patto, risorse che potrebbe anche trovare nella stessa azienda oggetto del patto, ma ciò, al di là dell’eventuale impoverimento dell’azienda, non sarà certamente facile.

Un problema in più sono le garanzie che l’erede assegnatario può dare agli altri eredi in caso di differimento dell’onere. Che garanzie potrà avere l’erede non assegnatario, in sede di sottoscrizione del patto? Infine da non sottovalutare l’aspetto temporale. Il legittimario assegnatario viene, di norma, in possesso dell’azienda (in tutto o in parte) dal momento della stipulazione del patto, salvo accordi diversi; gli altri eredi potrebbero trovarsi nella condizione di dover attendere. Appare evidente che potrebbero crearsi situazioni non sostenibili, proprio per impossibilità pratica di raffrontare valori temporali molto diversi tra loro, e con rendimento differito dei quali non si è tenuto conto, salvo esplicito accordo in tal senso. Troppa diseguaglianza per i legittimari non assegnatari.

Si ritiene che la compensazione possa essere effettuata anche dal disponente stesso attraverso il cosiddetto patto verticale, opposto allo schema orizzontale nel quale l’imprenditore attribuisce l’azienda o le partecipazioni ad un discendente e sarà poi quest’ultimo a compensare i legittimari. In estrema sintesi, nel patto verticale l’imprenditore assegna l’azienda o le partecipazioni societarie ad un discendente e provvede a liquidare gli altri. E questo è proprio il caso, da taluni peraltro ritenuto anche non corretto, che come si è visto può dare origine a problematiche di assegnazione agli eredi.

Nel caso in cui la liquidazione fosse effettuata direttamente dal disponente, non necessariamente si dovrà verificare la corrispondenza tra il valore del credito vantato dagli eredi verso l’assegnatario dell’azienda e il valore del bene trasferito dal disponente stesso. Secondo alcuni, pertanto, ove tale valore (al netto di quanto attribuito ai legittimari non assegnatari) dovesse superare la quota di legittima sull’azienda o sulle partecipazioni societarie, l’eccedenza andrebbe trattata come liberalità. E come tale soggetta comunque a collazione e all’azione di riduzione, al momento dell’apertura della successione. In caso contrario, infatti, ne potrebbe derivare un pregiudizio per l’assegnatario; quest’ultimo, però, ove dovesse ritenere lesi i suoi diritti, molto semplicemente avrebbe potuto non partecipare all’atto, astenendosi dalla richiesta sottoscrizione. In base alla norma attuale, infatti, è richiesta la sottoscrizione contemporanea da parte di tutti i legittimari, ed anche del coniuge, per la costituzione del patto di famiglia.

Nel caso in cui, invece, il valore liquidato dovesse essere inferiore rispetto alla quota di legittima sull’azienda o sulle partecipazioni societarie, il partecipante non assegnatario, accettando di ricevere quanto datogli, manifesterà così in modo del tutto inequivocabile l’intenzione di rinunciare alla liquidazione della sua quota di legittima, relativamente (e limitatamente) all’oggetto del patto di famiglia.

In conclusione, i partecipanti non assegnatari dell’impresa, ex art. 768 quater, secondo comma, c.c., avranno diritto sul valore di questi beni a una quota pari a quella individuata, in misura diversa a seconda della qualità e del numero dei legittimari, dagli artt. 537 e ss. c.c. La base di calcolo per determinare il valore delle quote riservate ai non assegnatari dell’azienda è rappresentata esclusivamente dai beni attribuiti ex pacto.

Pertanto, una volta stabilito il valore dell’impresa, valore che appunto si considera quale parametro per la liquidazione della legittima spettante ai non assegnatari, al momento della stipula del patto di famiglia, i mutamenti di valore dell’azienda successivamente intervenuti non potranno ovviamente acquisire rilievo alcuno.

I partecipanti non beneficiati dal patto avranno così diritto a tale liquidazione. La base di calcolo è coincidente con la massa patrimoniale costituita dai soli beni alienati tramite il patto e il valore della massa è da intendersi ancorato, anche nei confronti di legittimari sopravvenuti, alla valutazione effettuata dai contraenti al momento della stipula del patto stesso.

Ciò mal si concilia, ovviamente, con ipotesi di future azioni di riduzione, essendo necessariamente diversa la base di riferimento temporale.

5) Beni ricompresi o meno ai fini del calcolo di eventuali lesioni delle quote dei legittimari non assegnatari?

 

Nel patto di famiglia rileva il “valore attribuito in contratto” (art. 768 quater, terzo comma, c.c.). Non si applicano infatti le norme sulla determinazione del valore “al tempo dell’aperta successioneex artt. 747 – 750 c.c..

Questo valore (che può riguardare l’azienda o le partecipazioni sociali), valore necessario per effettuare i conteggi ai fini della liquidazione delle quote, è liberamente determinabile dalle parti al momento stesso della stipula del patto. E’ indubbiamente consigliabile far predisporre anche una perizia da un esperto, meglio se asseverata, da allegare al patto stesso. Ciò potrebbe rivelarsi utile, in futuro, anche nell’eventualità in cui, successivamente alla stipula, dovessero, tra l’altro, sopravvenire dei legittimari.

Nello stesso patto di famiglia è certamente opportuno menzionare il criterio di determinazione del valore adottato [3], prestando anche attenzione all’eventuale opportunità di attribuire un premio di maggioranza alle partecipazioni oggetto di trasferimento che dovesse integrare in capo all’assegnatario il controllo dell’impresa.

Per specifica previsione di legge, quanto abbiano ricevuto i contraenti del patto di famiglia non è soggetto a collazione né a riduzione (art. 768 quater, ultimo comma, c.c.).

Si verifica così il definitivo passaggio della proprietà dell’azienda, o delle partecipazioni sociali, in capo all’assegnatario, essendo appunto precluso l’assoggettamento alle azioni di riduzione e collazione di tale attribuzione.

Si ritiene altresì che non sia peraltro soggetto a collazione e riduzione nemmeno quanto i legittimari non assegnatari abbiano eventualmente ricevuto ex art. 768 quater, terzo comma, c.c., indipendentemente dal fatto che le assegnazioni siano avvenute tramite il patto di famiglia o per mezzo di successivi contratti collegati. Anche questi soggetti, infatti, sono qualificabili come contraenti, le cui attribuzioni patrimoniali non sono dunque soggette a collazione e riduzione (art. 768 quater, ultimo comma, c.c.).

Ma il patto di famiglia non è invece esentato dalla riunione fittizia[4].

La questione di base è se il trasferimento dell’azienda con il patto di famiglia debba o meno essere considerato per determinare la quota di cui il testatore può disporre.

Ove la risposta fosse affermativa, nel caso specifico analizzato in note non ci sarebbe alcuna lesione di legittima, come visto sopra.

Ci sono due teorie in merito, contrapposte.

Secondo la prima teoria, l’esclusione da riduzione e collazione, prevista dall’art. 768 quater, ult. co., c.c., non determina l’irrilevanza del trasferimento ai fini della riunione fittizia[5] e dell’imputazione ex se, salvo dispensa [6].

Ed allora non si vede perché riconoscere al beneficiario anche l’ulteriore vantaggio costituito dall’esenzione legale dall’imputazione ex se, salvo dispensa da parte del disponente, e dalla riunione fittizia[7].

Ovviamente, nell’imputare ex se, rispetto al patrimonio del disponente, il valore del bene produttivo trasferito, si dovrà detrarre quanto eventualmente corrisposto ai legittimari ex art. 768 quater, secondo comma, c.c.

Secondo l’altra teoria[8], invece, il bene produttivo non può essere preso in considerazione ai fini della riunione fittizia, e non deve essere imputato alla quota di legittima del disponente[9].

Secondo i sostenitori di questa tesi, ove così non fosse, la riunione fittizia avrebbe ad oggetto beni valutati in modo disomogeneo, secondo diversi criteri temporali: i beni trasferiti con il patto in base al valore attribuito al momento della stipula, mentre gli altri beni, quelli trasferiti durante la vita del de cuius, con strumenti diversi, e il relictum dovrebbero esser valutati al momento dell’apertura della successione [10].

La tesi trova sostegno nell’art. 564, quinto co., c.c., in forza del quale “ogni cosa che, secondo le regole contenute nel capo II del titolo IV di questo libro, è esente da collazione, è pure esente da imputazione”. Si può così ritenere, in base a questo principio, che l’esenzione da collazione, contenuta nell’art. 768 bis, quarto comma, c.c., determini anche l’esenzione da imputazione ex se.

Siccome l’imputazione delle liberalità in conto presuppone la riunione fittizia alla massa, ciò che è esente da imputazione è escluso anche dalla riunione fittizia, e, viceversa, ciò che è oggetto dell’una è incluso anche nell’altra [11] ”. Ne consegue così l’inapplicabilità della riunione fittizia.

E’ stato però obiettato che l’esenzione dalla collazione, prevista dalla disciplina sul patto di famiglia, non si trova, come prevede l’ultimo comma dell’art. 564 c.c., nel Capo II del Titolo IV del Libro II del Codice Civile, il quale non contiene alcun richiamo al nuovo Capo V bis, introdotto dalla legge n. 55/2006. Ne deriva che il bene produttivo, trasferito attraverso patto di famiglia sarebbe oggetto di imputazione ex se e, di conseguenza, di riunione fittizia, pur essendo escluso da collazione, in quanto, nel sistema delineato dalla legge 55/2006, sarebbe in vigore una regola diversa da quella per cui, all’esenzione da collazione, si accompagna quella da imputazione ex se [12].

Volendo confutare questa conclusione, non varrebbe l’obiezione secondo la quale l’art. 768 quater, terzo comma, c.c., prevede l’imputazione ex se esclusivamente con riguardo alle attribuzioni fatte in favore degli ipotetici legittimari non assegnatari del bene produttivo. Il motivo per cui la legge non dispone tale effetto in relazione all’azienda starebbe infatti nella possibilità che il beneficiario non assuma la qualifica di legittimario, pur dovendo essere un discendente del disponente[13].

L’istituto della riunione fittizia e quello dell’imputazione ex se hanno ad oggetto, per espressa previsione di legge, i beni di cui il defunto abbia disposto, in vita, a titolo di donazione. L’adesione all’una o all’altra teoria riguardante l’applicazione dell’imputazione ex se e della riunione fittizia al bene produttivo trasferito con patto di famiglia, sembra così fortemente correlata all’interpretazione che si dà alla natura stessa del patto di famiglia.

Qualora si ritenga trattarsi di donazione modale, nella quale il donante-disponente trasferisce al donatario-beneficiario un bene, gravando costui dell’onere di corrispondere agli ipotetici legittimari la quota loro spettante, in base all’art. 768 quater, primo comma, c.c. [14], ne consegue che il trasferimento tramite patto di famiglia ne è esentato (art. 768 quater, quarto comma, c.c.); si pone come effetto tipico della donazione.

Tuttavia appare più persuasiva l’opinione secondo la quale il patto di famiglia non sia un negozio liberale.

Sembrerebbe così più valida l’opinione secondo la quale l’oggetto del patto non possa essere riunito fittiziamente al patrimonio del disponente, in quanto l’art. 536 c.c. non può trovare applicazione, vista la natura non liberale del patto[15].

6) Quali effetti sulle precedenti donazioni del disponente

 

Il patto di famiglia può avere effetti anche su precedenti donazioni fatte in vita.

Non pare facile, in questo caso, trovare una soluzione condivisibile[16].

7) Altri aspetti

Ma ci sono anche altri aspetti che hanno concorso al fallimento dei patti di famiglia.

Uno riguarda le imposte; la norma prevede l’esclusione da imposte per i trasferimenti attuati in seguito del patto di famiglia (per le partecipazioni, solo ove si passi il controllo) con l’obbligo di proseguire nell’attività per almeno 5 anni.

Ma le questioni sorgono per i legittimari non assegnatari. Come trattarli, fiscalmente?

Inquadriamo i tre casi che possono verificarsi:

- la liquidazione è a loro effettuata dal disponente;

- la liquidazione è a loro effettuata dal beneficiario;

- rinuncia a quanto loro spettante.

La norma non prevede nulla di specifico, per quanto riguarda il trattamento fiscale dei legittimari non assegnatari. Ci si dovrà quindi riferire ai principi generali, anche se le soluzioni che si possono proporre non trovano uniformità di vedute.

Nel primo caso (liquidazione degli assegnatari non legittimari da parte del disponente) si applicano le imposte sulle successioni e donazioni, con l’applicazione delle imposte ipotecarie e catastali se del caso.

Nel secondo caso (liquidazione da parte del beneficiario), tenuto conto che non si tratta più di donazione, ma dell’adempimento di un modus, dovrebbe applicarsi l’imposta di registro con aliquota del 3%, trattandosi di “ atti diversi da quelli indicati aventi ad oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale”. Nessuna franchigia, quindi. Anche qui, applicazione eventuale delle imposte ipotecarie e catastali.

Per quanto concerne il terzo caso (rinuncia), l’imposta di registro è dovuta in misura fissa.

Infine, sempre per restare in ambito tributario, esaminiamo le problematiche relativamente all’eventuale scioglimento del patto.

Sono state avanzate due ipotesi, ambedue valide.[17]

Qualora lo scioglimento del patto abbia effetto ex tunc, e quindi sia “eliminato” con efficacia retroattiva, non ci sarebbe alcuna imposta; “il ritrasferimento non sarebbe oggetto dello scioglimento ma conseguenza dello stesso”.[18]

Qualora invece si consideri lo scioglimento come ritrasferimento, si applicherà l’imposta sulle donazioni. E questa tesi è quella che pare prevalere, al momento.

L’art. 28 del DPR 131/1986 sottopone all’imposta la risoluzione del contratto e la stessa Agenzia delle Entrate, come la Cassazione, si sono pronunciate per la tassazione dei trasferimenti per effetto di rimborso dei crediti per mutuo dissenso[19].

8) Le prospettive di riforma

Le attuali norme sui patti di famiglia non facilitano i passaggi generazionali, questo è pacifico.

Ecco perché AIDAF (Associazione Italiana Delle Aziende Familiari), gruppi di pressione e qualche parlamentare si erano fatti portavoce di nuove norme, che potrebbero agevolare appunto il passaggio.

Sintetizziamo queste proposte, senza esimerci dall’osservare come per lo più si tratti, in definitiva, di rendere possibile una maggiore disparità di trattamento tra i figli. Può darsi che ciò, in effetti, risponda a criteri sostanziali e validi, legati al moderno mondo dell’economia, ma resta il fatto che così aumenta la disparità di trattamento.

E’ ben vero che siamo di fronte a tanti fallimenti di passaggi generazionali, ma non per questo, a nostro avviso, regole meno tutelanti degli interessi di tutti gli eredi possono farne cambiare l’esito. Altre sono le motivazioni dei fallimenti dei passaggi di aziende, o comunque non solo i vincoli normativi, che peraltro rispondono ad un criterio di equità che ci ha accompagnato per decenni.

Il decreto Sviluppo (2011) inizialmente prevedeva[20] una possibilità di ripartire la quota di legittima tra i figli in quote non uguali tra loro, ma uguali solo per metà, restando quindi disponibile appunto metà della quota loro pertoccante, da assegnare però tra loro stessi.

Prevedeva anche che la compensazione ai legittimari non assegnatari fosse effettuata dal disponente e la possibilità di differimento del trasferimento dell’azienda anche dopo la stessa morte.

All’ultimo momento tutto è stato espunto. Presumibilmente perché gli argomenti non erano stati oggetto di adeguato e doveroso, aggiungiamo noi, approfondimento.

Alla Camera dei Deputati, infine, è stata presentata la proposta di legge n. 4463 datata 28 giugno 2011[21] .

Tale proposta prevede l’intervento obbligatorio dei legittimari non assegnatari anche successivamente al contratto, non necessariamente alla costituzione dello stesso, e che la liquidazione può essere effettuata dal disponente.

Abbiamo poi la proposta di riforma del Notariato, che però non tocca la questione della quota di legittima [22].



[1] Dello stesso avviso, Avv. Giuliano Zanchi, Il patto di famiglia, Quaderno n. 2, Centro Studi De Poli, 2011.

[2] Avv. Giuliano Zanchi, cit.

[3] Nella comunicazione della Commissione Europea 98/C 93/02 è stato ricordato che “ in caso di donazione all’interno della famiglia, il problema è rappresentato dalla mancanza di un prezzo di mercato e dalle numerose stime da cui dipende la valutazione. D’altra parte, la valutazione dell’impresa sarà comparata con quella di altri beni dati ai membri della famiglia come anticipi della successione. Perciò, la valutazione dell’impresa dovrà soprattutto tener conto dei rischi specifici e delle potenziali debolezze di un’impresa rispetto agli altri beni trasferiti, come gli immobili, il cui valore tende ad essere meno volatile”.

[4] Un caso pratico molto semplice, tratto da Carlo CICALA, Patto di famiglia e riunione fittizia del bene produttivo, in Fam., Pers. Succ., 2009, 622, può agevolare la comprensione della problematica:

- padre vedovo con due figli trasferisce con patto di famiglia l’azienda che vale 30 ad un figlio, il quale a sua volta liquida il fratello con 10;

- al decesso, il patrimonio relictum è di 30, attribuito al fratello non assegnatario dell’azienda.

L’autore dell’esemplificazione si è chiesto: può il fratello assegnatario dell’azienda proporre azione di riduzione per lesione di legittima (nel caso 1/3 di 30? ex art. 537, secondo comma, c.c.)?

Il fratello che ha ereditato ben può eccepire che è necessario riunire quanto già trasferito con il patto di famiglia (azienda di 30, anche se si tratta di valore attribuito con un riferimento temporale diverso) per cui non c’è lesione di legittima (in realtà può effettuarsi il seguente conteggio: 30 – 10 + 30 = 50; quota di legittima 1/3, pari a 16,334; il fratello assegnatario ha percepito 30 – 10 = 20, e quindi non ci sarebbe lesione, rapportato ad una quota di 16,334).

[5] DELLE MONACHE, Spunti ricostruttivi e qualche spigolatura in tema di patto di famiglia, in Riv. Not., 2006, 906 ss.; PETRELLI, La nuova disciplina del “patto di famiglia”, in Riv. Not., 2006, 456; MERLO, Appunti sul patto di famiglia, in Società, 2007, 953 ss.; BALESTRA, Prime osservazioni sul patto di famiglia, in Nuova giur. civ. comm., 2006, 376; LUCCHINI GUASTALLA, in Il patto di famiglia (Commentario alla l. 14 febbraio 2006, n. 55 « Modifiche al codice civile in materia di patto di famiglia»), in Nuove leggi civ. comm., 2007, 57 ss.

[6] V. però MERLO, op. cit., 954, secondo il quale non è dispensabile l’imputazione ex se del bene produttivo.

[7] Si pronunciano in questo senso DELLE MONACHE, op. cit. 906 ss.; LUCCHINI GUASTALLA, op. cit., 58; PETRELLI, op. cit., 450; sul punto v. CACCAVALE, Il patto di famiglia, in Trattato del contratto, Milano, 2006, 603, il quale osserva come sia astrattamente sostenibile che l’efficienza dell’impresa non richieda di garantire all’assegnatario l’ulteriore privilegio dell’esenzione dalla riunione fittizia, ma, per altro verso, sempre l’efficienza dell’impresa richiederebbe di garantire non solo la stabilità dell’attribuzione del bene, ma anche quella dell’intero assetto economico realizzato attraverso il patto di famiglia.

[8] ZOPPINI, Profili sistematici della successione “anticipata” (note sul patto di famiglia), in Riv. Dir. Civ., 2007, 287; DI MAURO, Art. 768 quater c.c. Partecipazione, in Minervini (a cura di), Il patto di famiglia. Commentario alla L 14/2/2006, n. 55, Milano, 2006, 127; GAZZONI, Appunti e spunti in tema di patto di famiglia, in Giust. Civ., 2006, 218 e 225.

[9] Nell’esempio formulato in nota, evidente sarebbe il vantaggio per la posizione dell’assegnatario, il quale avrebbe così diritto ad una porzione di legittima pari a 10, determinata sul valore del relictum, senza riunire fittiziamente quanto disposto con patto di famiglia.

[10] VALERIANI, Il patto di famiglia e la riunione fittizia (una, due… mille riunioni fittizie?), in AA.VV., Patti di famiglia per l’impresa, Milano, 2006, 123.

[11] DI MAURO, op. cit., 128.

[12] MERLO, op. cit., 954.

[13] Sotto questo profilo il patto di famiglia può essere accostato al testamento, che non è considerato un atto di liberalità in quanto l’istituzione di erede può non solo non arrecare alcun vantaggio patrimoniale al chiamato, “ma risolversi addirittura in un grave pregiudizio per costui ”: così CARNEVALI, Donazione. Diritto civile, in Enc. Giur., Roma, 1989, XII, 1.

[14] CACCAVALE, op. cit., 586; Idem, Appunti per uni studio sul patto di famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie, in Notariato, 2006, 304; LANDINI, Il c.d. patto di famiglia: patto successorio o liberalità, in Familia, 2006, 853; MERLO, Appunti sul patto di famiglia, in Società, 2007, 947.

[15] Nel caso più sopra illustrato l’assegnatario, pur avendo già ottenuto con il patto un beneficio netto pari a 20, valore dell’azienda detratta la somma corrisposta al fratello, potrebbe quindi agire vittoriosamente in riduzione attraverso la disposizione testamentaria che lo esclude dalla successione del padre. Avrà infatti diritto ad ottenere la propria quota di legittima, pari a 10, calcolata sul relictum di valore pari a 30, senza che si debba tener conto di quanto già assegnatogli con il patto. Questa conclusione è la tesi espressa dal citato Carlo Cicala; può sembrare spinta, ma è sostenuta da valide ragioni argomentative, anche se non equitative.

[16] Una esemplificazione può essere di ausilio. Imprenditore vedovo con due figli effettua in vita due donazioni, ad estranei alla sua famiglia. Successivamente stipula il patto di famiglia con i suoi due figli, attribuendo l’azienda, che vale 21, ad uno dei figli con l’obbligo di dare all’altro fratello 7, corrispondente alla quota di legittima.

Al momento dell’apertura della successione, si rivalutano le due donazioni fatte in vita, imputabili a 10 e 9. In ipotesi che non vi siano altri beni né passività, si deve calcolare il patrimonio del de cuius ex art. 556 c.c.

Questo il calcolo: patrimonio compressivo = 40 [(10 + 9) valutati oggi + (21 valutati al momento dell’atto)]

- legittima = 40 : 3 = 13,33 (art. 537, secondo comma, c.c.)

- quota attribuita all’assegnatario dell’azienda, al netto del pagamento al fratello = 14 (21 – 7)

- lesione di legittima per l’altro fratello = 6,67 (13,33 – 7)

Il primo figlio è stato interamente soddisfatto, mentre non così per il secondo figlio, il quale avrà, come unica possibilità, quella di agire nei confronti del beneficiario della seconda donazione, non perciò, si ritiene, contro il fratello. Potrà richiedere il reintegro fino al totale della quota di 14 (10 + 9 = 19; 19 – 13,33 = 5,67). Resterà insoddisfatto per 1 (6,67 – 5,67).

[17] Andrea De Magistris e Alberto La Manna, “I patti di famiglia: aspetti generali e disciplinari fiscali”, Il Fisco n. 13/2012 p. 1930

[18] Andrea De Magistris e Alberto La Manna, idem

[19] Si osserva in proposito che l’Agenzia delle Entrate, con la ris. n. 329/E del 14 novembre 2007, in riferimento ad una fattispecie di risoluzione di contratto di donazione per mutuo dissenso, ha osservato che ai fini delle imposte indirette l’atto di risoluzione consensuale è da considerarsi un autonomo negozio dispositivo mediante il quale il bene oggetto di donazione viene trasferito a titolo gratuito al donante e che, come tale deve essere sottoposto all’imposta sulle successioni e donazioni. Nello stesso senso la Suprema Corte ha stabilito che “in tema di imposta di registro, il contratto con il quale viene convenuta la risoluzione del contratto di vendita con riserva di proprietà di un immobile, comportando la retrocessione del bene oggetto del contratto risolto (cosa che per la legge di registro si verifica anche nella ipotesi di vendita con riserva di proprietà, dato che tale normativa considera detta vendita immediatamente produttiva dell’effetto traslativo), deve essere assoggettato alla imposta proporzionale da applicarsi con la aliquota prevista per i trasferimenti immobiliari” (Cass. 21 maggio 1998, n. 5075).

[20] In uno schema di D.L. 5/05/2011 e poi nell’emendamento riproposto in sede di conversione in legge (proposta n. 818 dell’8 giugno 2011). Per una dettagliata analisi di questo aspetto, vedasi Roberto Siclari, Rivista Notariato, 2012, p. 17.

[21] Proposta di Legge Marinello, Alfano ed altri “Modifiche al codice civile in materia di disciplina del patto di famiglia”

[22] La riforma dei diritti riservati ai legittimari - 2011

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Donazione di azienda, problematiche

di Francesco De Stefano, Notaio in Schio

 

1. La donazione di azienda

1.1 Generalità

La donazione è uno strumento giuridico di trasmissione a titolo gratuito di beni da parte di un soggetto vivente e si distingue dal testamento che non produce effetti se non alla morte del disponente.

Lo spirito della donazione è in realtà il desiderio o l’opportunità di aiutare i propri figli, anticipare la propria successione.

Le principali caratteristiche della donazione sono l'assenza di un corrispettivo ed il carattere tendenzialmente definitivo, trattandosi di un contratto. L'importanza di tale atto e le conseguenze che ne derivano esigono che questo si debba realizzare seguendo forme particolari.

La donazione deve rivestire la forma solenne dell’atto pubblico notarile, a pena di nullità e richiede la presenza di due testimoni, non parenti coniugi o affini, né interessati all'atto; il motivo risiede nella necessità di richiamare l’attenzione del donante sull’importanza dell’atto che sta per compiere.

L'opportunità di una donazione deve analizzarsi caso per caso, avendo presenti i seguenti elementi, che il notaio di fiducia potrà aiutare a valutare, e precisamente: il patrimonio del donante, la sua situazione familiare, le implicazioni sulla sua futura successione, gli aspetti fiscali e gli eventuali vantaggi di un simile atto. Spesso, la scelta della donazione, rispetto ad un atto a titolo oneroso (cioè con corrispettivo), si farà nell'ambito di un programma successorio globale e tenendo presenti i rapporti che intercorrono tra successione a causa di morte e donazione, e gli assetti che si intende raggiungere.

La donazione è un contratto e pertanto devono ricorrere i requisiti richiesti per la sua validità:

- la volontà del donante di spogliarsi, per spirito di liberalità, di un proprio bene senza esigere un corrispettivo e senza esservi obbligato;

- il trasferimento di un bene dal patrimonio del donante a colui che egli desidera beneficiare; qualsiasi bene, mobile o immobile, può essere oggetto di una donazione, purché lo stesso sia presente nel patrimonio del donante;

- l'accettazione del donatario. Nessuno può obbligare qualcuno ad accettare un regalo! Tale accettazione deve essere espressa.

La donazione è un atto importante e deve essere approfonditamente valutato dal donante, perché anticipa la propria successione ed è tendenzialmente irrevocabile, definitivo. Il donante non può più riprendere ciò che ha donato, neppure se successivamente si penta del suo gesto o se i rapporti tra le parti siano cambiati dopo l'atto di donazione.

Tuttavia, la donazione, come tutti i contratti, può essere sciolta per mutuo dissenso, e la legge, a tutela del donante, prevede cause di revocazione della donazione, per ingratitudine e per sopravvenienza di figli.

Inoltre, è possibile apporre all’atto di donazione svariate clausole, per raggiungere i più diversi obiettivi. Il ruolo del notaio nell’elaborare dette clausole ed adattarle alle esigenze del cliente, si rileva molto spesso fondamentale.

Si possono introdurre, così, ad esempio,

a) una condizione, che potrà essere sospensiva, se il donante vorrà subordinare il prodursi degli effetti al verificarsi di un evento futuro ed incerto, o risolutiva, se il donante intenda invece subordinare la cessazione degli effetti al verificarsi di un evento futuro ed incerto.

Attenzione però a non dedurre una condizione illecita o impossibile, e a non gravare la quota legittima (riservata per legge, intangibile) con una condizione;

b) un termine iniziale, a partire dal quale la donazione avrà efficacia, o finale, fino al quale la donazione avrà efficacia;

c) l’imposizione di un onere al donatario, cd. donazione modale, se il donante vuole in qualche modo limitare il valore dell’attribuzione patrimoniale; onere che può consistere nell’obbligo di prestare assistenza al donante, vita sua natural durante (mantenimento, vitto, vestiario, alloggio, cura della persona, compagnia); con possibilità di prevedere o meno la risoluzione della donazione in caso di inadempimento del donatario;

d) la riserva di usufrutto vitalizio o a tempo. In tal modo il donante sceglie di mantenere, a proprio vantaggio, il diritto di utilizzare il proprio bene e di percepirne i frutti (anche locandolo), per la durata prescelta ed al beneficiario della donazione andrà solo la nuda proprietà; il donante può riservare tale diritto, dopo di lui, a vantaggio di un'altra persona o anche di più persone, ma non successivamente.

e) riserva di disporre di cose determinate o di una determinata somma sui beni donati. Il donante, ma non i suoi eredi, potrà decidere di disporre di qualche oggetto compreso nella donazione. Si determinerà in tal caso una risoluzione parziale della donazione con conseguente sottrazione di parte del bene al donatario. La riserva di disporre apposta dal donante può riguardare anche una determinata somma sui beni donati e, in questo caso, si avrà un onere a carico del donatario, condizionato alla volontà del donante.

f) clausola di riversibilità. Il donante può stabilire che le cose donate ritornino a lui nel caso di premorienza del solo donatario o del donatario e dei suoi discendenti.

g) dispensa dalla collazione. Il donante esonera il donatario dall’obbligo di conferire alla massa attiva del patrimonio ereditario le donazioni ricevute in vita dal defunto in modo da dividerle con gli altri coeredi, in proporzione delle rispettive quote.

h) dispensa dall'imputazione. I legittimari sono tenuti ad imputare alla propria quota di legittima le donazioni ricevute in vita dal defunto, salvo che ne siano stati espressamente dispensati (c.d. imputazione ex se).

1.2 La fattispecie specifica e le altre figure alternative

Lo strumento più diffuso per attuare il “passaggio delle consegne” in favore dei figli è sicuramente la donazione di azienda.

Il Codice civile (art. 2555) definisce l'azienda come:

".. il complesso dei beni organizzati dall' imprenditore per l'esercizio dell'impresa".

Dalla definizione emergono due punti fondamentali:

- l'aspetto patrimoniale dell'azienda come complesso di beni;

- la centralità della figura dell'imprenditore.

La definizione, infatti, precisa che il complesso di beni diviene impresa solo se è organizzato dall'imprenditore a tal fine. Non esiste alcun cenno specifico alla finalità dell'impresa, né vi sono indicazioni su come l'impresa debba essere organizzata: il tutto viene lasciato alla libertà dell'imprenditore. Il concetto di azienda presuppone sempre quello di impresa; infatti l'azienda è necessaria per l'esercizio dell'impresa. L'azienda rappresenta la proiezione patrimoniale dell'impresa e i due concetti sono complementari. Le finalità proprie dell'impresa sono la produzione e lo scambio di beni e servizi e sono raggiungibili solo se l'imprenditore e i suoi collaboratori possono esercitare la loro attività sull'azienda. Perché esista un'impresa c'è la necessità di un imprenditore.

L'imprenditore non è necessariamente proprietario dei beni che fanno parte dell'azienda; è sufficiente che egli disponga, su ciascun bene, di un titolo giuridico che gli permetta di utilizzarlo per l'esercizio dell'impresa. La titolarità dell'azienda può quindi non coincidere con la proprietà dei beni aziendali.

Il conferimento di azienda

Uno strumento alternativo alla donazione, per attuare il passaggio generazionale può essere costituito dal conferimento dell’azienda individuale in una società preesistente o di nuova costituzione, a fronte del quale il conferente riceve partecipazioni societarie che può decidere di mantenere per un certo tempo e che successivamente può decidere di trasferire a titolo gratuito ai propri discendenti.

La donazione di partecipazioni societarie

Altro strumento cui si può ricorrere per attuare il passaggio generazionale è la donazione delle partecipazioni societarie eventualmente detenute dal socio.

Il conferimento di azienda

Nel caso in cui la donazione dell’azienda non soddisfi pienamente le esigenze del donante e del donatario, una soluzione alternativa potrebbe essere rappresentata dal conferimento di azienda.

L'operazione potrebbe rivestire un particolare interesse quando l'imprenditore voglia attuare gradualmente il passaggio, conferendo l'azienda in una società di nuova costituzione e ricevendo in cambio delle partecipazioni societarie, che poi gradualmente trasferisce ai discendenti prescelti per la continuazione dell'attività.

2. La tutela dei legittimari

Nel nostro sistema giuridico, la legge riserva necessariamente a determinati strettissimi congiunti del defunto (coniuge, discendenti e ascendenti, detti “legittimari” o “eredi necessari”) una quota dell’asse ereditario, anche contro la volontà espressa dal disponente con testamento o con donazioni fatte in vita: è questa la successione necessaria.

Essa costituisce un limite alla libertà testamentaria ed alla stessa libertà di donare, essendo la donazione un anticipo della propria successione.

Può accadere che la donazione fatta in vita dal donante o il testamento ledano i diritti dei legittimari (o eredi necessari).

In questo caso sia la donazione che il testamento saranno pur sempre atti validi ed efficaci.

Tuttavia, l’erede legittimo dimenticato o leso potrà agire in giudizio con la cosiddetta azione di riduzione delle donazioni o delle disposizioni del testamento che ledono la sua quota di legittima, per ottenere la quota spettante, per ricondurre la donazione o il testamento nei limiti di cui il donante o il testatore poteva disporre.

L’azione di riduzione è soggetta alla prescrizione ordinaria decennale, decorrente dall’apertura della successione (data del decesso).

Le donazioni effettuate in vita dal defunto si possono ridurre solo se il patrimonio residuo del donante non è sufficiente a soddisfare i diritti dei legittimari esclusi o lesi.

Qualora si agisca in riduzione, innanzitutto si riducono le disposizioni testamentarie proporzionalmente (tranne diversa volontà del testatore), successivamente si riducono le donazioni partendo dall’ultima che ha provocato la lesione e via via risalendo a quelle precedenti.

Nel caso in cui sia dichiarata dal giudice la riduzione di una donazione, il donatario sarà tenuto a restituire in tutto o in parte il bene ricevuto o, se ne ha disposto, il legittimario vittorioso potrà escuterne i beni, per soddisfare il suo diritto.

La tutela del legittimario quindi può coinvolgere anche la posizione giuridica di altri soggetti e, precisamente, di coloro che abbiano acquistato diritti dal donatario. Infatti, prima che siano trascorsi venti anni dalla trascrizione della donazione, o dieci anni dall’apertura della successione, qualora il donatario abbia alienato il bene e non abbia beni sufficienti per soddisfare le pretese del legittimario, al legittimario compete l’azione di restituzione, ovvero il diritto di ottenere dall’acquirente la restituzione del bene stesso. L’acquirente del bene, in tal caso, potrà liberarsi dall’obbligo di restituzione del bene, versando il controvalore in denaro.

In certi casi, il decorso del ventennio dalla trascrizione della donazione non è sufficiente per mettere al sicuro l’avente causa dal donatario, dal momento che coloro che potrebbero divenire legittimari dopo la morte del donante hanno la possibilità di opporsi alla donazione. Attraverso tale atto i legittimari impediscono che il decorso dei venti anni consolidi in capo agli aventi causa i diritti da essi acquistati, di modo che, agendo in riduzione anche a distanza di un termine maggiore, potranno vedersi restituito il bene in natura e libero da diritti di terzi.

Il diritto di opposizione alla donazione è personale, l’atto in cui si estrinseca deve essere notificato al donatario ed ai suoi aventi causa e trascritto nei pubblici registri, qualora abbia ad oggetto beni immobili o beni mobili registrati. Conserva efficacia per venti anni dalla sua trascrizione, che può essere rinnovata prima della scadenza. Al diritto di opposizione si può rinunciare e la rinuncia comporta una tutela per gli aventi causa dal donatario trascorso il suddetto termine dei venti anni, mentre è bene precisare che la rinuncia all’opposizione non costituisce comunque rinuncia all’azione di riduzione. Infatti, i legittimari non possono rinunciare al diritto di proporre detta ultima azione, finché colui della cui eredità si tratta è ancora in vita, né con dichiarazione espressa, né prestando il loro assenso alla donazione. Possono solo prestare acquiescenza alla donazione compiuta, quando il donante sia già morto.

3. La collazione e l’azione di riduzione

Per accertare se la donazione o il testamento hanno leso i diritti dei legittimari si procede alla “riunione fittizia” dell’asse ereditario del de cuius.

L’operazione consiste nel riunire, appunto, il patrimonio esistente al momento dell’apertura della successione (relictum), con i beni che sono stati oggetto di donazioni in vita, “per determinare l’ammontare della quota di cui il defunto poteva disporre” (art. 556 c.c.).

Il problema che si presenta è quello della determinazione dei valori dei beni, nel momento in cui si procede alla riunione fittizia tra relictum e donatum, perché da quei valori discende poi la verifica in concreto della sussistenza dei presupposti per la riduzione della donazione o della disposizione testamentaria il cui valore ecceda la quota di cui il defunto poteva validamente disporre.

Ora, se nell’asse ereditario si trovano beni immobili, il problema è di facile soluzione, perché basterà ricorrere ad una stima e, nel caso, detrarre il valore delle migliorie apportate.

Se invece oggetto della donazione in vita sia stata un’azienda, o delle partecipazioni sociali, e magari la società era proprietaria di immobili, allora il discorso si fa più complicato.

In tal caso, si pone il tema di quale valore considerare per il relictum, se il valore della partecipazione sociale in quanto tale o il valore dei singoli elementi (beni immobili) di proprietà della società partecipata dal de cuius.

Si ritiene di poter applicare alcuni criteri stabiliti in materia di collazione (artt. 737 e ss. c.c.) e in relazione alla donazione di azienda, per giungere alla conclusione per cui debba essere valorizzata la partecipazione in quanto tale e non i singoli elementi che la società partecipata possiede, vale a dire gli immobili di proprietà.

In tema di collazione e con riferimento alla valutazione di un complesso aziendale, infatti, la Cassazione 15 gennaio 2003, n. 502 ha stabilito che la valutazione dell’azienda “resta sottratta ai criteri concernenti i singoli beni, mobili o immobili, che compongono l’azienda medesima”, posto che “devesi aver riguardo, non già al valore dei singoli beni, mobili o immobili, che compongono l’azienda, bensì al valore assunto dall’azienda quale complesso unitario organizzato per fini produttivi, al tempo dell’apertura della successione”.

La stessa pronuncia, per inciso, tratta anche il tema della partecipazione societaria, affermando che “la quota sociale è rappresentativa solo della misura dei diritti di partecipazione del socio alla vita societaria, non conferendo al socio un diritto reale sui beni costituenti il patrimonio societario e quindi, costituisce un diritto personale, come tale soggetto a collazione per imputazione ex art. 750 c.c. per i beni mobili in genere”.

La valutazione andrà quindi compiuta avendo come riferimento il patrimonio della società in quanto tale, in relazione e nei limiti dei diritti personali partecipativi del socio, che non sono in alcun modo attributivi di diritti reali “diretti” sui beni di proprietà della società.

L’art. 750 c.c. richiamato stabilisce che “la collazione dei mobili si fa soltanto per imputazione, sulla base del valore che essi avevano al tempo dell’aperta successione”. Sempre in tema di beni mobili, va ricordato che un criterio diverso è quello relativo ai titoli di Stato e degli altri titoli di credito quotati in borsa, per cui la determinazione del valore “si fa in base ai listini di borsa”, ma non è il caso delle partecipazioni di una normale s.r.l., che non sono titoli negoziati sui mercati.

Va solo ricordato che il donatario avrà diritto alla detrazione a suo favore del valore delle migliorie eventualmente apportate, purché dipendenti dalla sua opera e non dalla naturale evoluzione dell'azienda. Il che vuol dire che l’opera, i versamenti in conto capitale, l’acquisto di beni ed attrezzature, le innovazioni et cetera, compiute dal donatario, saranno detratte dal valore dell’azienda che sarà stato determinato, con riferimento alla data di apertura della successione.

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Tavola Rotonda del 31 Maggio 2016, Schio

“Aziende di famiglia. Il passaggio. Esperienze e problematiche.”

Presentazione

Il tema del passaggio generazionale è un tema che tocca tutte le imprese familiari, prima o poi, e proprio in questi anni sta emergendo in tutte le varie problematiche.

Molte aziende sono arrivate al primo passaggio generazionale, qualcuna al secondo, e non sempre i risultati sono stati del tutto positivi.

Se vogliamo parlare di numeri, le aziende familiari in Italia con fatturato superiore ai 20 milioni, pari al 65% del totale delle imprese, generano un fatturato di quasi 800 miliardi di Euro e un valore aggiunto di quasi 200 miliardi. Hanno 2,3 milioni di dipendenti pari al 13,4% del totale (su 16.000 imprese, un po’ più di 10.000 sono familiari), 4.000 imprese familiari hanno un fatturato superiore ai 50 milioni, e si stima che nei prossimi 10 anni almeno 10 milioni di imprese in Europa saranno coinvolte in un processo di passaggio generazionale (fonte Osservatorio AUB 2015).

Si tenga conto che si tratta di un’opportunità, per l’azienda e anche per la proprietà; non deve essere visto come un problema.

Molti imprenditori, bravissimi nel loro lavoro, lungimiranti e capaci, pieni di intuizioni e di fervore, lo sono meno quando si tratta di pensare al futuro della loro azienda; anche per questo conviene saper gestire il passaggio generazionale. Certo affrontare il problema presuppone anche la necessità di fare delle scelte, di affrontare contrasti, ma tutto questo è da vedere positivamente, nell’ottica della soluzione dei problemi, che altrimenti rimarrebbero solo latenti.

Potrebbe servire anche uno psicologo, che aiuti gli interessati a trovare la soluzione più adatta alle particolari necessità.

Tre sono i livelli di questa problematica: famiglia, proprietà, gestione.

Non c’è una formula per tutti, ma sono state suggerite delle regole d’oro per un buon passaggio generazionale:

1) Pensarci per tempo

2) Spersonalizzare il passaggio del testimone

3) Chiamare i consulenti giusti

4) Come scegliere il successore

5) Fare spazio a manager esterni

6) Limitare i rischi di liti fra gli eredi

7) Separare patrimonio personale e azienda

8) Riorganizzare impresa e catena di comando

9) L’opzione giusta per ogni tipo di famiglia e azienda

10) Affetti e interessi: compensare gli scontenti.

Altri aspetti da considerare:

a) il business deve andare bene

b) tenere conto di tutti i soci, che devono appoggiare la gestione

c) focalizzare le risorse per acquisire ulteriori quote nell’impresa

d) lasciar fare esperienza ai figli al di fuori dell’azienda

e) senso di servizio, disponibilità per qualsiasi problema per collaboratori e familiari

f) pianificare gli obiettivi dell’impresa

g) pianificare il potenziamento dell’impresa

In ogni caso, da tenere sempre presente il concetto che conta: il merito, non tanto l’equità delle scelte, anche se questo criterio potrebbe talvolta portare a qualche tensione familiare.

È anche stato dato questo consiglio agli imprenditori: preparare una cartellina, da tenere in un comodo cassetto, dove inserire tutto quello che può interessare relativamente al passaggio generazionale. E ogni tanto aggiornarla. C’è la necessità di pensare a chi avrà la direzione e la responsabilità dell’azienda, da qui a 5 o 10 anni.

E questo non solo per il bene azienda, ma anche per il bene sociale e quindi di tutti.

Garantire la continuità dell’impresa familiare è un’operazione difficile per le PMI italiane per diversi motivi. Da un lato, la preoccupazione dell’imprenditore che si vede costretto a lasciare, generalmente per anzianità, la propria attività ai discendenti, i quali spesso non sono in possesso delle stesse competenze acquisite dal titolare nel corso degli anni, soprattutto in termini di leadership e capacità organizzative. Dall’altro lato, le difficoltà in cui si trovano i familiari, non sempre pronti a sostenere le molteplici funzioni ricoperte dal predecessore. Ricordiamo anche come proprio le PMI siano state oggetto di recentissime analisi da parte di Moody’s che le ha definite troppo deboli. “Seppure le PMI italiane forniscano il più alto valore aggiunto dell’economia del Paese, la loro performance resta relativamente debole – scrive Moody’s – con un saldo aziende fermo ai tempi della crisi del 2008 e un tasso di mortalità delle imprese che supera di oltre l’1% quello di natalità”.

Si rende necessario, quindi, pianificare il passaggio generazionale programmando la successione dal punto di vista aziendale, familiare e patrimoniale, per consentire all’imprenditore e ai suoi familiari di realizzare il futuro che essi stessi desiderano.

Questi sono gli argomenti che ci appassionano e che hanno determinato l’organizzazione di questo incontro.

Ci presentiamo: siamo tre studi professionali di diversa tipologia, ma accomunati da un forte interesse comune, il cliente impresa, e un identico approccio, l’approfondimento.

Uno studio notarile, uno studio legale e uno studio di dottori commercialisti, tutti con una particolare attenzione alle imprese.

Per quanto concerne i problemi giuridici e fiscali, il presente opuscolo cerca di dare una prima informazione, ovviamente parziale.

Circa le esperienze di vita vissuta, cercheremo di analizzarle in occasione della tavola rotonda del 31 maggio 2016 che congiuntamente abbiamo organizzato a Schio, nella sede di Confindustria di Vicenza che ringraziamo ancora.

Grazie a tutti coloro che vorranno partecipare, sempre pronti ad ulteriori approfondimenti.

Un cordiale saluto e un augurio di molti successi imprenditoriali.

Giuseppe Rebecca

Studio Rebecca & Associati – Vicenza / Schio

 

Simone Veronese

Prospettiva Diritto – Schio

 

Francesco De Stefano

Notaio in Schio

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Riccardo Guasco per Studio Rebecca & Associati

Riccardo Guasco aka “rik” è illustratore e pittore, nato ad Alessandria nel 1975. Le sue illustrazioni appaiono... (Continua)