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Liquidazione quote all’usufruttuario

di Giuseppe Rebecca
commercialistatelematico.com - 24 ottobre 2024

Da qualche tempo si sta discutendo, anche se del tutto saltuariamente, sulla questione dei diritti dell’usufruttuario di quote o di azioni di società. Nel silenzio delle norme, si fronteggiano due diverse contrastanti interpretazioni circa i diritti finanziari spettanti all’usufruttuario di titoli societari, quote o azioni.

Riprendiamo l’analisi della questione (vedasi anche nostro precedente articolo, sempre nel Commercialista Telematico del 19 maggio 2020, “Gli utili spettanti all’usufruttuario: problematiche” dal quale riportiamo qualche parte finale) tenendo conto della sentenza della Corte di Cassazione n. 11170/2024.

La sentenza di Cassazione n.11170/2024

La sentenza della Corte di Cassazione n. 11170 del 26 aprile 2024, estensore Angelo Napolitano, riguarda il caso di una liquidazione di srl, con il capitale e la somma eccedente versati dalla società estinta al socio nudo proprietario. L’Agenzia delle Entrate aveva invece ritenuto essere di competenza, questa somma, dell’usufruttuario, e non del socio nudo proprietario. In seguito ad un ricorso contro il silenzio rifiuto ad una istanza di rimborso, la Commissione Tributaria Provinciale di Pordenone, come pure la Commissione Tributaria Regionale del Friuli Venezia Giulia (n. 284/2016), hanno confermato la tesi dell’Agenzia. Tesi ora sposata anche dalla Cassazione, che tra l’altro ha anche dettato il seguente principio di diritto:

“nel caso in cui la quota sociale di una società a responsabilità limitata sia costituita in usufrutto, le somme ricavate dalla liquidazione volontaria della società, costituenti un utile per la parte che eccede il prezzo pagato per l’acquisto o la sottoscrizione delle quote, spettano all’usufruttuario, con la conseguenza che il rapporto d’imposta avente ad oggetto tale utile sorge, ad ogni effetto, tra l’amministrazione e l’usufruttuario.”

Il tema del contendere era fiscale, ma alla fine la pronuncia riguarda anche aspetti civilistici. Tra l’altro, nel caso specifico, tenuto anche conto del lungo tempo trascorso (la liquidazione era del 2002), l’usufruttuario presumibilmente avrà anche perso il diritto ad incassare tali somme.

Nel ricorso in Cassazione il socio nudo proprietario sosteneva che il residuo attivo finale, ciò che appunto residuava dopo aver liquidato tutte le passività sociali, doveva essere considerato una “massa patrimoniale indistinta” all’interno della quale non possono distinguersi gli utili. Ed in ogni caso i diritti spettanti all’usufruttuario ex art. 1000 del codice civile (mantenimento dell’usufrutto sulle somme spettanti al socio) permanevano comunque.

Secondo la Cassazione, invece, “in assenza, dunque, di una norma ad hoc che disciplini l’estinzione del diritto di usufrutto su una partecipazione sociale, non si può che applicare la disciplina generale di cui all’art. 1014 c.c., sicché l’usufrutto sulla partecipazione sociale non cessa con la messa in liquidazione della società… Quando, cioè, viene totalmente a mancare l’oggetto dell’usufrutto, il diritto si estingue.

…..

Se dunque, da una parte l’usufrutto su una partecipazione sociale di una s.r.l. si estingue certamente con la cancellazione della società dal registro delle imprese, d’altra parte non vi è alcuna norma che limiti l’estensione oggettiva dei diritti dell’usufruttuario ai dividendi che si sia deciso di distribuire durante la vita ordinaria (prima della messa in liquidazione) della società.

In altri termini, non si può affermare che i diritti dell’usufruttuario di una partecipazione sociale siano limitati ai dividendi… Il problema da risolvere è se anche dopo la messa in liquidazione della società la partecipazione sociale possa produrre utili.

A tale problema deve darsi risposta positiva.”

E a questo punto l’estensore della sentenza ricerca un appoggio anche nel diritto tributario, in quanto facente parte dell’intero ordinamento giuridico. Così dice la sentenza:

“Sovviene a questo punto, ai nostri fini, l’art 47 (ex art.44), comma 7, del Tuir (d.P.R. n.917 del 1986), a norma del quale le somme ricevute dai soci in caso di liquidazione della società costituiscono utile per la parte che eccede il prezzo pagato per l’acquisto o la sottoscrizione delle azioni o quote annullate”

….

“Tale misura, allora, in quanto«utile», rappresenta un frutto civile della partecipazione sociale, sicché esso spetta, in costanza di usufrutto, all’usufruttuario”.

Non abbiamo presente altri casi analoghi di riferimenti al diritto tributario a supporto di quello civilistico, ma probabilmente per nostre carenze. In ogni caso il riferimento appare anche viziato dal fatto che la norma tributaria fa riferimento ai soci, ed è notorio che l’usufruttuario non è socio, restando appunto socio il solo nudo proprietario. Quindi proprio il richiamato riferimento al diritto tributario non affermerebbe quanto la sentenza invece ritiene.

Ma questa sentenza non convince nemmeno sotto l’aspetto pratico; come si fa ad affermare che quanto percepito in più rispetto a quanto pagato è tutto utile spettante all’usufruttuario? La somma pagata in più può avere infatti, e di norma così accade, una composizione variegata, oltre che datata: riserve, utili e plusvalori. Come si fa a voler considerare tutto questo utile?

Al massimo potrebbe essere garantito all’usufruttuario il diritto all’incasso delle riserve formate post costituzione del diritto di usufrutto, come pure il mantenimento dell’usufrutto sulle altre maggiori somme assegnate (riserve costituite ante costituzione del diritto e plusvalori, al netto delle minusvalenze), come appunto prevede l’articolo 1000 del c.c., somme che sono da assegnare invece al nudo proprietario.

Ma c’è di più; nella sentenza non viene preso in considerazione alcun diritto a riscuotere alcunché da parte del socio nudo proprietario. Forse che non gli si dovrà corrispondere nulla? Certamente una parte della somma che residua al termine della liquidazione sarà di sua competenza, ed anche per lo stesso vale il principio della differenza tra costo e somma percepita. Almeno l’importo corrispondente al costo gli dovrà essere riconosciuto, questo è pacifico; anche se non sarà facile determinare l’importo del costo corrispondente alla nuda proprietà. E quanto ad eventuali plusvalori la questione resta aperta. In ogni caso c’è la confliggenza di due costi da considerare, uno per il nudo proprietario, e uno per l’usufruttuario, e la determinazione del plusvalore per la differenza. La soluzione non pare in ogni caso semplice.

 

Il parere del Comitato dei Consigli notarili delle Tre Venezie

La tesi della Cassazione viene a cozzare del tutto con un parere, opposto, del Comitato Interregionale dei Consigli Notarili delle Tre Venezie.

Questo Comitato, ancora nel 2017è intervenuto su questo particolare aspetto, in occasione della periodica annuale emanazione delle massime sugli orientamenti in materia di volontaria giurisdizione.

Questo il testo della massima H.I.27 – (Usufrutto sulle azioni – Diritto agli utili e alla distribuzione di riserve – 1° pubbl. 9/17 – motivato 9/17) (per le SRL, analoga, I.I.32).

“L’art. 2352 c.c. disciplina soltanto l’attribuzione dei diritti amministrativi nel caso di usufrutto sulle azioni disinteressandosi di quelli economici.

Stante tale carenza si deve ritenere che all’usufruttuario di azioni spettino i diritti economici previsti dalla disciplina generale, cioè il diritto a percepire i frutti civili cui all’art. 984 c.c.

Nel caso delle azioni societarie, hanno natura di frutti civili gli utili di esercizio di cui sia deliberata la distribuzione.

Gli utili destinati a riserva non spettano dunque all’usufruttuario, in quanto la decisione di non distribuirli equivale ad una loro “capitalizzazione”, con definitiva apprensione al patrimonio della società delle somme accantonate.

L’eventuale delibera di distribuzione di riserve, siano esse da utili o di capitale, equivale ad una attribuzione di somme che rappresentano un capitale e non al pagamento di un frutto civile, per cui il diritto alla loro riscossione spetta al socio nudo proprietario, il quale, ai sensi dell’art. 1000 c.c., dovrà esercitarlo in concorso con l’usufruttuario e sulle somme riscosse si trasferirà l’usufrutto.

Tale regola trova applicazione anche nell’ipotesi di distribuzione di riserve in natura”.

In buona sostanza, la massima stabilisce che, ove fossero distribuite riserve costituite ante o anche post costituzione del diritto di usufrutto, all’usufruttuario non spetterebbe nulla, se non l’usufrutto sulle somme distribuite.

Esemplificando: si distribuiscono riserve per 100. Queste vanno al nudo proprietario, spettando all’usufruttuario solo il reddito derivante da tali somme, specifica la massima. E questo anche per riserve create post costituzione dell’usufrutto o anche qualora non fosse possibile stabilire la data di formazione delle riserve stesse ora distribuite.

Questo il commento della Commissione Notarile del Triveneto:

“In assenza di una specifica disciplina sul punto, deve ritenersi che all’usufruttuario di azioni spettino i diritti economici contemplati dalle disposizioni generali sull’usufrutto contenute negli artt. 978 e ss. c.c., in particolare nell’art. 984 c.c. il quale prevede che “I frutti naturali e i frutti civili spettano all’usufruttuario per la durata dell’usufrutto…

Nelle società azionarie tale natura compete esclusivamente agli utili di esercizio di cui sia deliberata la distribuzione che, conseguentemente, spettano all’usufruttuario…

In ogni caso non è possibile derogare alla regola legale che attribuisce ai soci il diritto di decidere sulla sorte degli utili introducendo nello statuto un obbligo di loro distribuzione “automatica”…

Qualora, poi, i soci di maggioranza deliberassero di non distribuire gli utili senza che ricorrano esigenze di rafforzamento patrimoniale ma solo per compiere un atto emulativo a svantaggio dei soci di minoranza o degli usufruttuari, tale delibera sarà impugnabile per “eccesso/abuso di potere” e dunque rimuovibile…

Per comprendere a chi tra l’usufruttuario e il socio spettino tale somme occorre determinare quale sia la loro natura (remunerazione del capitale investito o sua restituzione parziale)…

Sotto questo profilo la loro provenienza è del tutto irrilevante.

Le riserve di patrimonio appartengono alla società e non ai suoi soci.

È per questo che in caso di perdite è corretto ridurre una qualunque riserva, sia essa di capitale o di utili.

Anche la normativa fiscale appare indifferente a tale scelta in caso di perdite: l’art. 47 del TUIR disciplina espressamente solo la fattispecie della distribuzione delle riserve di utili mai tassati, non anche quella del loro utilizzo a ripianamento perdite…

In realtà la decisione dei soci di non distribuire gli utili non determina il semplice loro accantonamento in attesa di una futura distribuzione, ma produce un vero e proprio “conferimento” a patrimonio, assimilabile ad un versamento in conto capitale.

La delibera di non distribuzione degli utili comporta la perdita definitiva e irreversibile del diritto alla loro distribuzione…

Conseguentemente, qualora venisse deliberata la distribuzione di somme prelevate da una riserva distribuibile, sia essa di capitale o di utili, all’usufruttuario spetterà unicamente il diritto di vedere estendere su di esse il suo usufrutto ai sensi dell’art. 1000 c.c. e non certo quello di percepirle come se fossero un frutto civile.

Che tale ricostruzione sia corretta è dimostrato anche dalla circostanza che le riserve di utili si costituiscono nel tempo sommando accantonamenti deliberati in singoli esercizi, esercizi che potrebbero essere anche diversi da quelli in cui era vigente un eventuale usufrutto sulle azioni.

Attribuire, dunque, a colui che sia usufruttuario all’epoca della distribuzione riserve formate con utili accantonati quando non era vigente il suo diritto reale appare incongruo.

Come altrettanto ingiusto sarebbe, nell’ipotesi inversa, attendere che si estingua l’usufrutto per deliberare la distribuzione ai soci di riserve costituite con utili prodotto quando era vigente tale diritto.

Deve quindi concludersi che il risultato di esercizio positivo del quale non si sia deliberata la distribuzione non costituisce di per sé un frutto civile ai sensi dell’art. 820 c.c. e, dunque, non spetta all’usufruttuario”.

 

Considerazioni sulla massima del notai del Triveneto

 Si sono riportate, in parte, le motivazioni che hanno supportato l’orientamento in commento. A prima vista tutto pare logico e razionale, ma non ne siamo del tutto convinti, nella sostanza.

E ciò non tanto per il possibile eventuale abuso del diritto che potrebbe effettuare il nudo proprietario, applicando alla lettera tale massima, abuso che potrebbe consistere nel preventivo accantonamento deliberato dagli altri soci di utili poi distribuiti, ma proprio nelle stesse conclusioni. Al contrario, per un abuso del diritto effettuato da parte degli usufruttuari, vedasi la sentenza del Tribunale di Marsala, 21/7/2005 (si trattava però di tutt’altra cosa: messa in liquidazione della società deliberata dall’usufruttuario) e precedentemente Cass. n. 7614 del 19 agosto 1996 che così ha sentenziato: “il diritto di voto nell’assemblea della società a responsabilità limitata, per le quote che siano state date in usufrutto, compete unicamente all’usufruttuario.

Ne discende altresì che l’usufruttuario esercita al riguardo un diritto suo proprio – non vota, cioè, in nome e per conto del proprietario- e non è perciò obbligato, in linea di principio, ad attenersi alle eventuali istruzioni di voto di quest’ultimo gli abbia impartito.

L’usufruttuario medesimo, naturalmente, deve astenersi da comportamenti che possano arrecare ingiusto danno al nudo proprietario della quota ed, in particolare, da modi di esercizio del diritto di voto che possano compromettere la conservazione del valore economico della partecipazione in società; ciò nondimeno, l’eventuale violazione di tale obbligo, proprio perché esso rileva solo nei rapporti tra le parti, espone il responsabile al rischio di estinzione dell’usufrutto, nonché all’azione risarcitoria del proprietario leso, ma non può riflettersi sulla validità del voto espresso in assemblea, né, di conseguenza, sulla validità della deliberazione che l’assemblea abbia adottato, anche se quel voto sia risultato determinante.”

Al momento della costituzione dell’usufrutto, nella determinazione del suo valore, è evidente che è considerato anche l’ammontare delle riserve esistenti, oltre alla quota di capitale. Discorso in parte diverso. cheanalizzeremo appresso, riguarda le plusvalenze implicite.

Pare pertanto logico che su queste riserve l’usufruttuario non abbia alcuna aspettativa, alcun diritto ad incassare, in caso di distribuzione futura, se non l’usufrutto, non certo l’entità stessa delle riserve, avendo egli appunto ricevuto solo un usufrutto. La sue legittima aspettativa verte solo sul rendimento futuro della società, dato anche dall’entità delle risorse finanziarie disponibili.

Ma proprio per questo, essendoci questa limitazione per il passato, la stessa cosa non può valere anche per il futuro. L’usufruttuario ha diritto alla quota di utile realizzato dopo la costituzione dell’usufrutto , anche se non distribuita.

Non può essere che, se tale utile viene accantonato, l’usufruttuario ne perda definitivamente il diritto alla riscossione. Una semplice delibera di distribuzione rispetto ad una delibera di accantonamento non può evidentemente far cambiare natura ad un diritto.

Altrimenti si sconfinerebbe nel non rispetto del principio dell’equità, come anche segnalato nella parte di commento della massima da parte dei notai.

Analizziamo in dettaglio la fattispecie.

L’art. 981, comma 2 c.c. prevede che l’usufruttuario abbia il diritto “di trarre dalla cosa ogni utilità che questa può dare”.

Tale disposizione viene comunemente interpretata nel senso che l’usufrutto, salvo patto contrario, esclude il socio nudo proprietario da ogni utilità derivante dalla partecipazione e spetta all’usufruttuario incassare:

  • gli eventuali dividendi;
  • le riserve di capitale distribuite (ma vedremo con delle limitazioni).

“Infatti, analizzando il caso dalla prospettiva del socio e dell’usufruttuario, non sembra contare l’origine di una riserva di una società, bensì colui che possiede il diritto di beneficiare delle delibere della società. Pertanto, per le partecipazioni detenute in usufrutto, la destinazione a riserva dell’utile, a suo tempo deliberata, elimina qualsiasi posizione soggettiva specifica del socio e determina solo il valore della quota, e ciò vale a maggior ragione per le riserve di capitale che siano disponibili. Pertanto, eventuali distribuzioni di riserve di capitale non possono che spettare all’usufruttuario” (Salvatore Sanna, Eutekne info, 3/8/12).

Fino a qui si è fatto riferimento alle SPA; per quanto concerne le SRL si segnala come il codice civile nulla disponga circa la spettanza del diritto di voto in caso di pegno o usufrutto della quota., e neppure richiama, a tal proposito, l’art. 2352 c.c., che appunto riguarda la medesima questione relativamente alle SPA. Tale dissimetria di regolamentazione espressa tra SPA e SRL non è però indice della volontà legislativa di disciplinare la fattispecie in modo opposto nell’uno o nell’altro caso. La Cassazione, seppure in tempi non recenti, si è pronunciata a favore di questa tesi, e quindi di un regolamento conforme (Cass. n. 1835 del 1962 e n.2698 del 1961, richiamate dalla sentenza n. 7614 del 1996).

 L’usufrutto di quote di società di persone

 L’usufrutto di quote di società di persone è ora pressoché unanimemente ammesso, ancorché non previsto dal codice civile, nemmeno per rimando. Giurisprudenza e dottrina sono alla fine arrivate a questa conclusione. Certo, le problematiche operative non mancano; ne elenchiamo talune. A chi spetti la qualifica di socio (al nudo proprietario, per lo più), se l’usufruttuario possa essere ritenuto anch’esso responsabile personalmente per le obbligazioni sociali (per lo più per la responsabilità), se possa essere amministratore (tesi incerta), se serva il suo consenso per le modifiche societarie (incertezza) e i diritti spettanti in caso di scioglimento della società.

Per quanto concerne la questione qui trattata, e cioè dell’utile spettante all’usufruttuario, con i necessari adattamenti dovuti alla diversa natura societaria, si pongono le stesse problematiche circa la spettanza dell’utile analizzate per le società di capitali. Nello specifico, come differenza di una certa rilevanza, rispetto all’usufrutto nelle società di capitali, si ha il fatto che l’utile fiscale è imputato per trasparenza a tutti i soci, e tra questi anche all’usufruttuario, ancorché non distribuito.

Aspetti fiscali

Da tenere anche conto dell’aspetto fiscale, ed in particolare della presunzione fiscale di cui all’art. 47 c. 1 del TUIR secondo cui “indipendentemente dalla delibera assembleare, si presumono prioritariamente distribuiti l’utile dell’esercizio e le riserve diverse da quelle del comma 5 per la quota di esse non accantonata in sospensione di imposta”. Ne consegue che, ancorché sia deliberata la distribuzione di riserve di capitale, fiscalmente si presume, senza possibilità di prova contraria, che s’intendono prioritariamente distribuite, e fino a capienza, le riserve di utili disponibili. E queste dovrebbero quindi essere di spettanza dell’usufruttuario sotto forma di dividendi.

Applicando tale principio, in sede di cessione del diritto di usufrutto della partecipazione dovrebbe essere valido il disposto per il quale il costo fiscale riconosciuto per l’acquisto del diritto deve essere ridotto delle somme o del valore normale dei beni ricevuti a titolo di partecipazione di riserve o fondi di cui all’art. 47 comma 5 del TUIR.

Le plusvalenze

 Analizziamo ora un aspetto molto particolare, relativo alle plusvalenze, siano esse implicite o realizzate. La questione non è di poco conto, soprattutto per determinate tipologie di società. Si pensi in particolare alle società immobiliari o anche alle società holding, che abbiano o realizzino dei beni (immobili o partecipazioni) plusvalenti. A chi spetteranno, questi utili? Il problema è proprio questo. È benvero che la plus poteva esistere già al momento della costituzione del diritto di usufrutto, nel qual caso all’usufruttuario dovrebbe spettare solo l’usufrutto su tale importo, ma si pongono problemi irrisolvibili. La plus realizzata corrisponde a quella implicita al momento della costituzione del diritto di usufrutto? E se si fosse realizzata solo tutta dopo?

 Conclusioni

 Certo sono evidenti le problematiche che possono sorgere e le possibili dispute relativamente a chi competano le riserve distribuite, in presenza di usufrutto. L’unica possibilità di chiarezza è una specifica previsione statutaria, anche se formulare specifiche previsioni ad hoc non è operazione facile.

In presenza di riserve ante costituzione del diritto di usufrutto e di riserve derivanti da utili realizzati post costituzione dell’usufrutto, la successiva distribuzione si presta a problematiche di non semplice soluzione. Ma in ogni caso la soluzione proposta del Notariato del Triveneto, una delle possibilità, non appare del tutto convincente, potendo in certi casi ledere i diritti dell’usufruttuario.

Quanto alle somme corrisposte in seguito a liquidazione della società non pare facile, né tantomeno pacifico, determinare a chi possano spettare, tra nudo proprietario e usufruttuario. La soluzione proposta dalla Cassazione non appare convincente, come nemmeno convincenti sono le considerazioni dei notai del Triveneto. Al momento, solo la previsione di specifiche clausole statutarie potrebbe risolvere la questione. In assenza, ogni ipotesi può essere avanzata.

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