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Il trattamento delle sanzioni amministrative nella determinazione del reddito d'impresa: le diverse posizioni a confronto

di Giuseppe Rebecca e Maurizio Zanni
Il Fisco, N. 36 - 1 ottobre 2012

 

La mancanza di una disciplina tributaria speci­fica in merito al trattamento da riservare alle sanzioni amministrative, in sede di determi­nazione del reddito d'impresa, ha comportato la prassi costante degli Uffici finanziari di con­siderare tali oneri sempre e comunque estra­nei all'attività aziendale, in quanto conse­guenza di comportamenti illeciti dell'impren­ditore, e perciò interamente indeducibili. Anche la giurisprudenza, specie quella di le­gittimità, è ormai prevalentemente orientata nel senso di negare la sussistenza di qualsiasi nesso di inerenza fra le sanzioni pecuniarie e la produzione del reddito d'impresa, mentre la dottrina, al contrario, è spesso pervenuta a conclusioni favorevoli alla deducibilità di tale tipologia di costi.

1. Premessa

Capita sovente che l'impresa sia chiamata a cor­rispondere delle somme di danaro a titolo di sanzione amministrativa, ovvero somme do­vute non a fronte dell'acquisto di fattori produt­tivi (beni o servizi), bensì a causa di infrazioni commesse nello svolgimento dell'attività aziendale, quali, ad esempio, trasgressioni di norme tributarie, illeciti valutari o di tipo finanziario, violazioni del codice della strada, inosservanza delle norme in materia di tutela della concor­renza, eccetera.

Tali penalità assolvono evidentemente la funzio­ne di punire l'autore dell'illecito amministra­tivo, rappresentando la reazione dell'ordina­mento giuridico alla violazione di norme poste a tutela di interessi pubblici affidati alle cure della Pubblica Amministrazione. Anche le sanzioni amministrative, dunque, al pari di quelle penali, hanno una valenza essenzialmente afflittiva, ol­tre che di deterrenza; peraltro da quest'ultime si distinguono per molteplici aspetti: non sono sottoposte al regime costituzionale e non sono reputate diminutive della dignità della persona e quindi socialmente squalificanti; inoltre, non in­cidono sul godimento dei diritti politici del tra­sgressore, possono colpire anche le persone giu­ridiche e non vengono registrate nel casellario giudiziario.

Tanto premesso, con il presente articolo si in­tende fare il punto sulla annosa, ma mai assopi­ta, questione del corretto trattamento fiscale ap­plicabile alle sanzioni amministrative pecuniarie ai fini della determinazione del reddito d'impre­sa. Il tema è alquanto complesso, anche perché il panorama delle sanzioni che possono essere irrogate al contribuente/imprenditore è piuttosto variegato.

Come vedremo, mentre nella giurisprudenza di merito, così come in dottrina, si ravvisano opinioni discordanti sulla suscettibilità delle san­zioni pecuniarie a concorrere (come componenti negativi) alla determinazione del reddito impo­nibile, fra i Giudici di legittimità e l'Amministra­zione finanziaria esiste invece, ormai da tempo, una tendenziale unità di vedute: qualsiasi tipo di sanzione amministrativa, a prescindere dal­la natura e dalla causa generatrice della stessa, è indeducibile dal reddito d'impresa, principal­mente in considerazione della finalità punitiva che ne caratterizza l'irrogazione.

2. Aspetti contabili

Prima di esaminare la questione inerente alla deducibilità fiscale dei costi affrontati dall'im­presa a titolo sanzionatorio, appare opportuno svolgere qualche breve considerazione in merito alla loro corretta esposizione in bilancio. Al riguardo, si osserva come sia sempre necessa­rio verificare se gli oneri in commento siano ri­conducibili all'alveo della gestione ordinaria op­pure straordinaria dell'impresa. La questione non è affatto irrilevante sotto il profilo tributa­rio. Infatti, considerato che, in generale, i com­ponenti straordinari del reddito d'impresa non concorrono a formare la base imponibile Irap1, laddove si reputasse corretto dedurre una sanzione amministrativa ai fini delle impòste sui redditi (in ragione della sussistenza del requisito di inerenza all'attività imprenditoriale), la mede­sima sanzione, ove allocata nella sezione straor­dinaria del Conto economico (macroclasse E), anziché fra gli oneri diversi di gestione (voce B14), resterebbe comunque indeducibile ai fini dell'anzidetta imposta regionale. Poiché la normativa civilistica in materia di bi­lancio tace sul contenuto della voce "proventi e oneri straordinari" del Conto economico, ai fini della identificazione di tali elementi reddituali occorre fare riferimento ai principi contabili na­zionali, i quali precisano che l'aggettivo "stra­ordinario" deve intendersi non riferito all'ecce­zionalità o anormalità dell'evento, bensì all'estraneità della fonte del provento o dell'onere all'attività ordinaria dell'impresa. Più precisa­mente, il Principio contabile n. 29 individua le seguènti caratteristiche che devono contempo­raneamente sussistere per poter qualificare co­me "straordinario" un fatto economico inerente l'attività aziendale:

a) casualità, accidentalità e sporadicità del­l'evento;

b) estraneità della fonte dell'onere rispetto al­l'attività ordinaria.

Pertanto, un costo, ancorché non ricorrente, ossia accidentale e insolito, ha comunque natura or­dinaria se connesso alla normale attività del­l'impresa. Per questo motivo, ad esempio, parte della dottrina2 ha sostenuto che le sanzioni anti­trust trovano corretta collocazione nell'area ordi­naria dello schema di Conto economico, trattan­dosi di oneri sorti dallo svolgimento dell'attività tipica dell'impresa. Trovano, invece, allocazione nella voce E21 del Conto economico le sanzioni connesse a imposte di esercizi precedenti nonché gli oneri sostenuti per multe, ammende e penalità caratterizzate dalla non ricorrenza nel tempo, dalla imprevedibilità e dall'estraneità alla or­dinaria attività d'impresa3.

Va altresì aggiunto che, in caso di sanzioni non ancora comminate, ma di probabile o certa irro­gazione e delle quali, alla chiusura dell'esercizio, non si conosca ancora l'esatto ammontare, l'im­presa, in sede di redazione delle scritture di as­sestamento, è tenuta ad accantonare in un ap­posito fondo rischi le somme presumibilmente dovute a titolo sanzionatorio, per poi utilizzare tale fondo al momento dell'effettiva correspon­sione della sanzione.

3. La posizione dell'Amministrazione finanziaria

Il tema della deducibilità delle sanzioni ammini­strative è stato ufficialmente affrontato, per la prima volta, dall'Amministrazione finanziaria 4 con riferimento al caso specifico delle sanzioni antitrust, ossia le sanzioni per violazione delle norme in materia di concorrenza (sulle quali torneremo diffusamente più avanti). In partico­lare, dopo aver rilevato come il problema del trattamento fiscale di tale tipologia di sanzioni si ponga negli stessi termini delle altre sanzioni amministrative pecuniarie riferibili all'impresa, l'Agenzia delle Entrate ha evidenziato che, in ge­nerale, la rilevanza tributaria degli oneri san-zionatori nell'ambito della determinazione del reddito d'impresa deve essere risolutamente e­. schisa, in quanto il rapporto di correlazione fra costo e produzione del reddito - che costitui­sce il presupposto fondamentale per poter ope­rare la deduzione dei costi e delle spese - non sarebbe mai riscontrabile con riguardo a quegli oneri costituiti dal pagamento di sanzioni com­minate per punire comportamenti illeciti del contribuente. Dunque, pur trattando di un pro­blema specifico (quello delle sanzioni irrogate dall'Antitrust), i tecnici del Fisco hanno afferma­to un principio di portata ben più generale, in base al quale gli oneri sanzionatori aventi natura afflittiva sono da considerarsi non inerenti all'at­tività d'impresa in ragione delle loro caratteristi­che intrinseche.

Allo stesso modo, nella circ. 20 giugno 2002, n. 55/E5, anche se con riferimento al reddito di la­voro autonomo (ma la conclusione è evidente­mente estensibile, per analogia, al reddito d'im­presa), l'Agenzia delle Entrate ha sostenuto l'indeducibilità dei costi in questione, in quanto si tratterebbe di esborsi che non possono essere considerati funzionali alla produzione del red­dito.

Infine, l'Amministrazione finanziaria è tornata sull'argomento de quo con la successiva circ. 26 settembre 2005, n. 42/E6, rimarcando che, in ge­nerale, le sanzioni mancano di qualunque nesso funzionale con l'attività aziendale, rispondendo per definizione ad una finalità extraimpren­ditoriale che è quella repressiva e preventiva del comportamento illecito.

4. Gli orientamenti della giurisprudenza e della dottrina

Occorre dire che la giurisprudenza non ha mai manifestato un atteggiamento granché favorevo­le rispetto alla possibilità di considerare le san­zioni amministrative come oneri inerenti alla produzione del reddito e quindi deducibili.

Anzi, secondo un filone giurisprudenziale di le­gittimità ormai consolidato, la deducibilità degli oneri in questione deve essere sempre esclusa per carenza del requisito dell'inerenza, a nulla rilevando la mancata previsione normativa di uno specifico regime di indeducibilità fiscale. In particolare, nella sentenza della Cassazione 3 marzo 2010, n. 50507 (emessa, come si vedrà fra breve, con specifico riferimento al caso delle ci­tate sanzioni antitrust), viene rilevato come la deducibilità delle sanzioni non possa, in genera­le, essere ammessa in quanto le stesse, essendo irrogate in relazione ad un esercizio non cor­retto dell'attività d'impresa, hanno - come già evidenziato - una funzione punitivo-re-pressiva ed affermare la loro deducibilità signi­ficherebbe, ad avviso dei Supremi Giudici, smi­nuire significativamente tale funzione.

Per contro, certa parte della dottrina8, in assen­za di un divieto normativo espresso, propende per la deducibilità delle sanzioni amministrati­ve dal reddito d'impresa, sottolineando, peraltro, la necessità di verificare, caso per caso, la sussi­stenza de] requisito dell'inerenza all'attività im­prenditoriale e, più specificamente, alla produ­zione dell'utile, ed escludendo, comunque, la possibilità di dedurre le sanzioni per violazio­ni tributarie, rappresentando quest'ultime la conseguenza di illeciti compiuti dall'imprendi­tore in veste di contribuente e non nello svolgi­mento dell'attività aziendale. Sintetizzando, si può dire che la tesi della de­ducibilità fiscale delle sanzioni amministrati­ve poggia sostanzialmente sulle seguenti argomentazioni:

• nessuna norma fiscale prevede espressamente l'indeducibilità delle sanzioni dal reddito d'im­presa;

• in mancanza di una disciplina specifica, il trattamento fiscale delle sanzioni deve essere valutato alla luce dei principi generali sui

componenti del reddito d'impresa ex art. 109 del Tuir, primo fra tutti quello di inerenza, cosicché le sanzioni dovute dall'imprenditore per illeciti amministrativi commessi nell'eser­cizio dell'impresa rappresentano oneri dedu­cibili se riferibili, anche indirettamente, ai ricavi d'esercizio; • la pretesa irrilevanza fiscale delle sanzioni comporterebbe un aggravio delle stesse, da momento che l'impresa verrebbe colpita due volte: una prima volta, direttamente, median­te la comminazione dalla sanzione ammini­strativa prevista per l'illecito compiuto; una seconda volta, in modo indiretto, per via della asserita indeducibilità della sanzione stessa.

Per contro, i sostenitori della indeducibilità

delle sanzioni amministrative9 fondano la pro­pria tesi sulla natura afflittiva delle sanzioni in genere e sulla circostanza che trattasi di oneri non inerenti all'attività d'impresa, in virtù della considerazione che gli stessi sono l'effetto del comportamento illecito dell'imprenditore e non la causa, donde l'impossibilità di configurare un rapporto di causa/effetto fra il pagamento della sanzione e i ricavi conseguiti e tassati.

5. Analisi di alcune fattispecie

5.1. Sanzioni antitrust

Negli ultimi anni, il dibattito sulla deducibilità dal reddito d'impresa delle sanzioni amministra­tive si è concentrato soprattutto sulle cosiddette sanzioni antitrust di cui alla L. 10 ottobre 1990,^ n. 287, ovvero sulle sanzioni pecuniarie che l'Autorità garante del mercato e della con­correnza commina qualora, a seguito di apposi­ta istruttoria, riscontri comportamenti (come, ad esempio, intese restrittive della libertà di con­correnza o abusi di posizione dominante) che compromettono e limitano l'altrui diritto di ini­ziativa economica tutelato dall'art. 41 della Co­stituzione, falsando o restringendo il gioco della concorrenza sul mercato.

Come si è già avuto modo di ricordare, la pro­blematica è stata affrontata, per la prima volta, dall'Amministrazione finanziaria con la richia­mata circ. 17 maggio 2000, n. 98, in cui è stata negata la possibilità di dedurre dal reddito d'im­presa le suddette sanzioni, in quanto le stesse, essendo conseguenza di un contegno illecito, non soddisferebbero - ad avviso dei tecnici delle Entrate - il requisito dell'inerenza all'attività d'impresa.

La stessa Amministrazione finanziaria è poi tornata a pronunciarsi sul tema in commento con la già citata ris. 12 giugno 2001, n. 89/E, riba­dendo la tesi della irrilevanza fiscale delle sanzioni comminate alle imprese che, dolosa­mente o colposamente, trasgrediscono le norme sulla tutela della concorrenza e adducendo, a suffragio di tale orientamento, la circostanza che - come evidenziato anche dal Consiglio di Stato, sezione VI, nel parere n. 1671 del 20 mar­zo 2001 - si tratterebbe di pene pecuniarie con­notate da una funzione afflittiva e non risarcitoria.

Sulla stessa posizione dell'Agenzia delle Entrate si è ormai schierata anche la prevalente giuri­sprudenza di legittimità. In particolare, l'ulti­ma importante pronuncia della Cassazione sul trattamento delle sanzioni per pratiche anticon­correnziali è quella contenuta nella sent. 11 apri­le 2011, n. 813510, in cui la Suprema Corte, at­traverso un percorso motivazionale alquanto ar­ticolato, giunge alla conclusione che le predette sanzioni, al pari di ogni altra sanzione ammini­strativa pecuniaria, non possono essere dedotte ai fini della determinazione del reddito d'im­presa.

Nello specifico, i Giudici di piazza Cavour, dopo aver sottolineato che un costo può considerarsi inerente all'attività d'impresa se e soltanto se lo stesso sia funzionale alla produzione di reddi­to, hanno affermato che le sanzioni antitrust, in ragione del loro prevalente carattere punitivo ed afflittivo, si configurano come costi che non na­scono nell'impresa, "ma in un atto o fatto, quello antigiuridico, che per sua natura si pone al di là della sfera aziendale". Inoltre, sempre secondo la Suprvema Corte, la deducibilità delle sanzioni in oggetto rappresenterebbe un fatto idoneo a ridurre in maniera significativa la valenza puni­tiva e repressiva delle sanzioni medesime, atteso che, mediante la loro deduzione, si potrebbe ot­tenere un risparmio d'imposta che finirebbe per compensare, sia pure parzialmente, il peso delle sanzioni irrogate.

La summenzionata sentenza della Corte di Cas­sazione consolida, quindi, l'orientamento e­spresso in precedenza dalla medesima Corte, con le pronunce 12 gennaio 2011, n. 60011 e 3 marzo 2010, n. 5050, le quali negano la dedu­zione dei componenti negativi in parola; escludendo che per gli stessi possano sussistere con­dizioni peculiari tali da permettere di derogare ai principi generali seguiti per sostenere il difet­to di inerenza con riguardo alle altre tipologie di sanzioni amministrative. In particolare, nell'ulti­ma sentenza citata, i Supremi Giudici avevano svolto, fra le altre, le seguenti considerazioni:

• le sanzioni antitrust non possono qualificarsi come "fattore della produzione" del reddito d'impresa e quindi come onere deducibile, perché derivano da un comportamento che, in quanto antigiuridico, rimane avulso dal­l'esercizio dell'attività aziendale;

• la modalità di determinazione della san­zione commisurata ai ricavi del soggetto tra­sgressore (nei limiti della soglia del dieci per cento) non rappresenta una circostanza ido­nea a giustificare un legame con il reddito im­ponibile del periodo d'imposta considerato o di quelli successivi 12;

• il riconoscimento della deducibilità della san­zione equivarrebbe alla sterilizzazione del­l'efficacia punitiva della stessa.

Più ondivago risulta, invece, l'orientamento della giurisprudenza di merito, la quale tal­volta ha sostenuto l'impossibilità di dedurre dal reddito d'impresa le sanzioni in argomento, adducendo sostanzialmente le stesse argomenta­zioni della Cassazione; talaltra si è invece pro­nunciata a favore della loro deducibilità13, evi­denziando, in particolare, che le sanzioni in e­same assolvono una funzione risarcitoria e ripristinatoria dell'equilibrio economico viola­to e, in quanto tali, devono considerarsi inerenti ex art. 109 del Tuir.

Particolarmente significativa è, sotto questo pro­filo, la citata sentenza della Commissione tribu­taria provinciale di Milano 28 ottobre 2010, n. 427, in quanto trattasi di una pronuncia interve­nuta successivamente alla summenzionata sent. n. 5050/2010 della Cassazione, che - come detto - ha invece escluso la deducibilità fiscale degli oneri in commento.

Partendo dalla constatazione che, non essendovi nel Tuir alcuna norma che fissi né la deducibili­tà né la indeducibilità delle sanzioni antitrust, occorre giuridicamente rifarsi alle norme ge­nerali stabilite dal medesimo testo unico in te­ma di reddito d'impresa e, soprattutto, al prin­cipio di inerenza ex art. 109, i Giudici milane­si hanno sostenuto la rilevanza, come compo­nente negativo di reddito, delle predette sanzio­ni, rilevando, in primo luogo, come le stesse non abbiano affatto una funzione afflittiva, bensì ri­pristinatoria della situazione di concorrenzialità che vi sarebbe stata se non fossero state violate le norme sulla concorrenza; e in secondo luogo, sottolineando il loro collegamento diretto con la gestione aziendale, essendo irrogate a fronte di comportamenti diretti a produrre maggiori rica­vi per l'impresa, ancorché in modo illecito. Da ultimo, nella medesima pronuncia, i Giudici meneghini hanno osservato che il mancato rico­noscimento della rilevanza fiscale delle sanzioni in parola comporterebbe una sostanziale viola­zione del principio di capacità contributi­va, atteso che si addiverrebbe, in tal modo, alla tassazione di un maggior reddito imponibile ri­spetto alla effettiva attitudine contributiva del­l'impresa, attitudine che è certamente affievolita dalle sanzioni subite.

Va poi detto che a favore della deducibilità delle sanzioni antitrust si è schierata anche la più qualificata dottrina14. Al riguardo ricordiamo che, in base alla Norma di comportamento n. 138' dell'Associazione Dottori Commercialisti di Milano, le sanzioni antitrust sono deducibili nella determinazione del reddito d'impresa in quanto le infrazioni che le originano si manife­stano nell'ambito dell'attività imprenditoriale e normalmente comportano il conseguimento di maggiori ricavi rispetto a quelli realizzabili in assenza del comportamento lesivo sanzionato. In sostanza, secondo la citata Norma n. 138, le sanzioni antitrust devono essere ammesse in de­duzione dal reddito d'impresa perché rappresen­tano oneri sostenuti per la produzione del reddi­to medesimo. Infatti, la loro funzione è quella di ricondurre il mercato a condizioni di maggiore equità, sottraendo all'impresa, attraverso il pagamento della penalità, i ricavi conseguiti in vio­lazione della libera concorrenza. A sostegno di siffatte argomentazioni si è so­stanzialmente pronunciata anche Assonime nel­la circ. 24 maggio 2000, n. 39, in cui viene affer­mato come sia difficile negare che le sanzioni in parola presentino comunque un collegamento con la gestione aziendale, ferma restando la ne­cessità di valutare caso per caso la correlazione delle stesse con la produzione dell'utile.

Deducibilità delle sanzioni antitrust

Posizioni favorevoli

In giurisprudenza di merito, fra le altre:

- Comm. trib. prov. di Milano, sent. n. 78 del 2 marzo 2011;

- Comm. trib. prov. di Milano, sent. n. 427 del 28 ottobre 2010;

- Comm. trib. prov. di Milano, sent. n. 370 del 4 aprile 2001;

- Comm. trib. prov. di Matera, sent. n. 437 del 4 ottobre 2001.

In dottrina, fra gli altri:

- Associazione Dottori Commercialisti di Milano, Norma di comportamento 9 aprile 1999, n. 138

- Assonime, circ. 24 maggio 2000, n. 39.

Amministrazione finanziaria:

- circ. min. n. 98/E del 17 maggio 2000;

- ris. dell'Agenzia delle Entrate n. 89/E del 12 giugno 2001.

Posizioni contrarie

In giurisprudenza di legittimità, fra le altre:

- sent. Cassazione n. 8135 dell' 11 aprile 2011;

- sent. Cassazione n. 5050 del 3 marzo 2010.

In giurisprudenza di merito, fra le altre:

- Comm. trib. reg. di Torino, sentt. n' 7 del 14 gennaio 2009 e n. 37 del 24 marzo 2009

- Comm. trib. prov. di Firenze, sent. n. 45 del 7 aprile 2006;

- Comm. trib. reg. della Lombardia, sentt. n. 10 del 25 giugno 2004 e n 17 del 31 maggio 2004.

5.2. Contravvenzioni al codice della strada

Sempre in tema di sanzioni amministrative, al­tra problematica degna di nota è quella concer­nente il trattamento fiscale delle sanzioni irroga­te a fronte di infrazioni alle norme sulla cir­colazione stradale. La questione che si pone in riferimento alla loro deducibilità assume una particolare rilevanza per quelle imprese in cui il costo rappresentato da dette sanzioni può essere di ammontare non trascurabile (basti pensare agli autotrasportatori o agli agenti e rappre­sentanti di commercio).

Al riguardo, va detto che l'innegabile funzione punitiva che connota le sanzioni in esame ha in­dotto la dottrina assolutamente prevalente a di­sconoscere la loro rilevanza come componenti negativi deducibili dal reddito d'impresa. Tale po­sizione dottrinale è d'altronde in linea con la giu­risprudenza della Cassazione. In particolare, con la sent. 29 maggio 2000, n. 707115, la Suprema Corte ha stabilito che tali sanzioni non sono de­ducibili dal reddito d'impresa, in quanto la corre­lazione fra costo e produzione del reddito è da escludere, in linea di principio, con riferimento a quei costi rappresentanti dal pagamento di san­zioni per comportamenti illeciti del contribuente. Le motivazioni addotte dai giudici Ermellini a suffragio del proprio indirizzo interpretativo sullo specifico argomento della sanzioni stradali non sono dissimili, dunque, da quelle poste a fonda­mento della generale indeducibilità delle sanzioni pecuniarie: anche in questo caso si eccepisce il difetto di inerenza all'attività d'impresa, che sarebbe riscontrabile con riguardo ad ogni onere derivante da un comportamento illecito, ancor­ché tenuto nell'ambito dell'impresa stessa.

Tuttavia, in dottrina non mancano opinioni di tenore contrario. In senso positivo circa la dedu­cibilità delle sanzioni per infrazioni stradali si è espressa, ad esempio, la Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro, con il parere n. 1 del 19 gennaio 20IO16, in riferimento al caso di un au­totrasportatore, imprenditore individuale, al quale, in occasione di un grave incidente stradale, era stato sequestrato il mezzo ed elevata una contravvenzione. Al riguardo, la citata dottrina ha osservato che così come è pacifica la dedu­zione degli oneri di dissequestro dell'automezzo e del maggior premio assicurativo dovuto alla penale applicata dalla compagnia assicurativa, "non si comprende perché non debba essere de­ducibile anche la contravvenzione che è una del­le componenti relative all'intera vicenda nella quale è evidente che l'uso del mezzo di trasporto è avvenuto nell'ambito dell'attività d'impresa or­dinariamente esercitata dall'imprenditore".

Altra dottrina17, dopo avere evidenziato come l'i­nerenza all'attività d'impresa delle contravvenzio­ni al codice delle strada diventi persino lampante in tutti quei casi in cui esse si riferiscano a beni strumentali, come sono gli autoveicoli utilizzati per fornire, produrre, commercializzare e, quindi, per svolgere l'attività d'impresa, ha giustamente ri­levato che, anche per le contravvenzioni, vanno comunque applicati i limiti di deducibilità dei costi afferenti gli automezzi stabiliti dall'art. 164 del Tuir.

5.3. Penalità contrattuali

I presupposti per eccepire l'assenza del requisito di inerenza, prospettabile, secondo l'orientamen­to prevalente, con riguardo al pagamento delle sanzioni amministrative irrogate a fronte di comportamenti illeciti del contribuente, non so­no stati ritenuti sussistenti con riferimento all'i­potesi delle penalità contrattuali. Infatti, con la sent. n. 19702 del 28 giugno 2011, depositata il 27 settembre 201118, la Corte di Cassazione ha stabilito che le somme versate a titolo di penalità per il ritardo nell'adem­pimento o in caso di inadempimento con­trattuale sono, in generale, deducibili ai fini della determinazione del reddito d'impresa, in quanto inerenti all'attività aziendale.

A tale proposito è utile rammentare che, in base all'art. 1382, comma 1, del codice civile, "la clau­sola con cui si conviene che, in caso di inadempi­mento o di ritardo nell'adempimento, uno dei contraenti è tenuto a una determinata prestazio­ne, ha l'effetto di limitare il risarcimento alla pre­stazione promessa, se non è stata convenuta la risarcibilità del danno ulteriore". A detta disposi­zione deve essere ricondotta, ad esempio, la clau­sola, spesso contenuta nei contratti di vendita, che prevede una penalità a carico del fornitore che ef­fettui la consegna della merce in ritardo ri­spetto alla data concordata nel contratto. Tale clausola, come evidenziato dalla Suprema Corte nella sentenza dinnanzi richiamata, rappresenta un patto accessorio del contratto che svolge sia la funzione di rafforzare il vincolo contrattuale fra le parti, ovverò di coercizione all'adempimen­to, sia quella di determinare, in via preventiva e consensuale, la misura del risarcimento in ca­so di inosservanza degli obblighi contrattuali. Pertanto, ad avviso della Cassazione, la clausola in questione non è connotata da una finalità sanzionatoria o punitiva e, quindi, le somme dovute in sua dipendenza non possono in alcun modo esse­re equiparate alle sanzioni comminate dall'Auto­rità amministrativa per punire comportamenti il­leciti dell'imprenditore. I Giudici Ermellini hanno altresì sottolineato che, diversamente dal compor­tamento illecito sanzionato in via amministrativa - il quale non può mai essere ricondotto ad un'at­tività inerente all'impresa, ponendosi, per sua na­tura, al di fuori della medesima - l'inadempi­mento contrattuale, le cui conseguenze siano di­sciplinate preventivamente e consensualmente dai contraenti, non spezza il nesso di inerenza fra l'operazione economica e l'attività dell'impresa ma, anzi, rappresenta una evoluzione delle vicen­de contrattuali riconducibile alla dinamica della stessa attività d'impresa.

Orientamento della Cassazione sul trattamento di alcune fattispecie sanzionatorie

Sanzioni antitrust

Si tratta di sanzioni aventi natura e finalità punitiva e afflittiva e, in quanto tali, la lo­ro deducibilità dal reddito d'impresa è da escludersi per difetto di inerenza.

Sanzioni per infrazioni stradali

Non possono essere dedotte in quanto la correlazione di un onere con la produzione del reddito d'impresa deve essere sempre esclusa quando, come nel caso di specie, si tratta di una sanzione irrogata per punire un comportamento illecito.

Penalità contrattuali

Sono costi inerenti all'attività d'impresa. Nello specifico, si tratta di sopravvenienze passive deducibili in sede di determinazione del reddito d'impresa del periodo d'imposta in cui è commessa la violazione, a norma dell'art. 101, comma 4, del Tuir.

6. Istanza di rimborso per evitare sanzioni

L'analisi che precede ha messo in evidenza come il trattamento degli oneri sanzionatori nell'am­bito del reddito d'impresa sia una questione di non facile soluzione, anche per via della molte­plicità di sanzioni che possono essere commina­te all'imprenditore. Peraltro, alla luce soprattut­to degli ultimi pronunciamenti della giurispru­denza di legittimità, la tesi della deducibilità dal reddito imprenditoriale delle sanzioni ammini­strative pecuniarie appare fortemente compro­messa e, stante anche l'inequivoca prassi mini­steriale in materia, si deve ritenere che non sia­no nemmeno invocabili le disposizioni di cui a­gli artt. 6, comma 2, del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 e 10, comma 3, della L. 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto del contribuente), che e­scludono l'applicabilità delle sanzioni per viola­zioni tributarie in presenza di condizioni di o­biettiva incertezza sulla portata e sull'ambito di applicazione della normativa fiscale. In un'ottica prudenziale, sembra allora oppor­tuno uniformarsi, in sede di dichiarazione dei redditi, all'indirizzo interpretativo dell'Ammini­strazione finanziaria, non deducendo dal reddito d'impresa gli oneri sanzionatori, e poi presenta­re eventualmente, con le modalità e nei termini previsti dall'art. 38 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, un'istanza di rimborso delle imposte versate in eccesso per effetto della ripresa fiscale in aumento corrispondente all'ammontare delle sanzioni.

Anche se la presentazione di tale istanza può da­re luogo a un contenzioso, derivante dal rifiu­to, espresso o tacito, dell'Agenzia delle Entrate di restituire le maggiori imposte connesse all'e­sclusione delle sanzioni dal computo reddituale, il contribuente istante non rischia l'applicazione della sanzione amministrativa per dichiarazio­ne infedele prevista dall'art. 1, comma 2, del D. Lgs. n. 471/1997 nella misura che varia dal 100 al 200% della maggiore imposta dovuta o del minore credito spettante. Sanzione che inve­ce, in ipotesi di accertamento, verrebbe senz'altro applicata dall'Agenzia delle Entrate, laddove il contribuente decidesse di non operare alcuna variazione fiscale in aumento in relazio­ne agli importi pagati a titolo di sanzionatorio.

E, alla luce di quanto sopra esposto, un eventua­le ricorso avverso l'avviso di rettifica dell'Ufficio avrebbe scarse possibilità di essere accolto dalle Corti di merito e la certezza di essere rigettato dalla Cassazione, la quale, come s'è visto, non si è mai pronunciata a favore della tesi della dedu­cibilità delle sanzioni aventi carattere afflittivo e non risarcitorio.

7. Riflessioni conclusive

In conclusione, ci sia consentito di esprimere al­cune critiche all'orientamento dottrinale e giu­risprudenziale che, in maniera indiscriminata e pregiudizievole, nega la possibilità di scomputa­re dal reddito d'impresa qualsivoglia somma pa­gata a titolo di sanzione amministrativa. Se è vero che nella normativa tributaria vigente manca, come abbiamo più volte sottolineato, una disciplina specifica circa il trattamento delle san­zioni, ciò non deve portare ad affrontare la que­stione della deducibilità di codesti esborsi in mo­do differente da come verrebbe trattato un qua­lunque altro onere sostenuto nell'esercizio dell'at­tività aziendale. Intendiamo dire che l'inerenza (fiscale) delle sanzioni pecuniarie all'attività d'im­presa non deve essere esclusa a priori, sulla base di argomentazioni etico-moralistiche, doven­dosi sempre svolgere, a nostro avviso, un'indagine sul collegamento all'esercizio dell'impresa dell'e­vento che ha generato l'onere sanzionatorio. Quando le sanzioni si configurano come oneri conseguenti ad atti incardinati nel programma economico dell'impresa, nel senso che derivano da eventi che hanno origine nell'attività econo­mica stessa dell'impresa, appare corretto soste­nerne la deducibilità, perché la loro espunzione dalla base imponibile condurrebbe ad una mi­surazione alterata del reddito, la quale sfo­cerebbe in una violazione del principio di capa­cità contributiva, per via della tassazione di un reddito parzialmente inesistente.

E sempre necessario, invece, tassare "il reddito effettivo prodotto dall'impresa, senza esprimere giudizi morali circa la meritevolezza delle com­ponenti positive e negative che concorrono a formarlo. Del resto, nell'ambito della disciplina del reddito d'impresa, non vi è alcuna norma che imponga di valutare la deducibilità degli oneri sanzionatori secondo un concetto di inerenza più restrittivo rispetto a quello ordinariamente riconosciuto; e soprattutto, dal dato normativo, non sembra potersi desumere una funzione "moralizzatrice" del principio di inerenza che impedisca di considerare indeducibili i costi conseguenti a comportamenti antigiuridici. La neutralità, sotto il profilo etico, della normativa tributaria è fra l'altro confermata dalla circo­stanza che risultano tassabili anche i proventi derivanti da fatti o atti illeciti e che, inibendo espressamente la deducibilità dei costi diretta­mente connessi al compimento delle fattispecie di reato più gravi (delitti non colposi)19, il legi­slatore ha lasciato implicitamente intendere che possono essere dedotti, ad esempio, le spese de­rivanti da condotte qualificabili come illeciti ci­vili o amministrativi.

Per questo si fatica a comprendere il fondamen­to giuridico della preclusione generale opera­ta dalla Corte di Cassazione in ordine alla rile­vanza fiscale delle sanzioni amministrative. Ad avviso di chi scrive, non tutte le sanzioni sono indeducibili e, nondimeno, non tutte le sanzio­ni possono essere dedotte dal reddito d'impresa. Occorre verificare, caso per caso, se il compor­tamento illecito, legittimamente sanzionato, ab­bia concorso oppure no alla realizzazione di ri­cavi o altri proventi imponibili, e quando l'inere­nza all'attività che ha prodotto (o che produrrà) i ricavi è inconfutabile e sono altresì soddisfatti gli altri presupposti fissati dal Tuir in ordine alla competenza, alla certezza e alla oggettiva de­terminabilità, la soluzione dovrebbe essere quel­la della piena deducibilità delle somme versate a titolo di sanzione amministrativa. Così, ad esempio, è condivisibile l'orientamento che nega la deducibilità delle sanzioni relative alle imposte sui redditi, perché, come osservato da Assonime nella già richiamata circolare n. 39/2000, trattasi di sanzioni che, al pari delle imposte evase cui esse accedono, rappresentano una "vicenda giuridica a valle della formazione del reddito", mentre appare quanto meno arduo sostenere il difetto di inerenza all'attività d'im­presa con riferimento, ad esempio, alle sanzioni corrisposte per violazioni delle disposizioni sulla concorrenza, atteso che si tratta indiscutibil­mente di violazioni compiute in funzione di ac­crescere la capacità dell'impresa di realizza­re ricavi; così come appare difficile sostenere la mancanza di inerenza con riguardo alle sanzioni per infrazioni stradali commesse da un rappre­sentante di commercio per il quale l'autoveicolo utilizzato per recarsi dai clienti rappresenta, se così possiamo dire, il suo bene "più inerente" all'attività esercitata.



1 In proposito si ricorda che, per i soggetti Ires nonché per le imprese individuali e le società di persone, in contabili­tà ordinaria, che esercitano l'opzione ex art. 5-b/s, comma 2, del D.Lgs. n. 446/1997, la base imponibile Irap è deter­minata dalla differenza fra il valore e i costi della produ­zione di cui alle lettere A) e B) dell'art. 2425 del codice ci­vile, con esclusione di alcune voci (B9-costi del personale, Bl Oc-altre svalutazioni delle immobilizzazioni, BICd -svalutazione dei crediti compresi nell'attivo circolante e delle disponibilità liquide, B12 - accantonamenti per ri schi e B13-altri accantonamenti).

2 Cfr., ad esempio, Assonime, nella circ. n. 34 del 31 luglio 2009)

3 In tal senso il Documento interpretativo n. 1 del Principio contabile n. 12.

4 Si vedano la ris. 12 giugno 2001, n. 89/E e la circ. 17 mag­gio 2000, n. 98/E, entrambe in banca dati Fisconline .

5 In banca dati "'Fisconline".

6 In banca dati "'Fisconline".

7 In "il fisco' n. 12/2010, fascicolo n. 1, pag. 1864, con commento di P. Turis.

8 Cfr., fra gli altri, F. Buscaroli, La deducibilità delle san­zioni dal reddito di impresa, in "Rassegna Tributaria" n. 3/2003, pag. 918. Si veda, inoltre, la Norma di comporta­mento n. 41/1978 dell'Associazione Dottori Commerciali­sti di Milano.

9 Cfr., fra gli altri, S. Capolupo, L'indeducibilità delle san­zioni pecuniarie dal reddito d'impresa, in "il fìsco n. 3/2005, fascicolo 1, pag. 317; G. Antico-C. Giudice, L'inde­ducibilità fiscale delle sanzioni amministrative, in "il fi, scó n. 21/2009, fascicolo n. 1, pag. 3409.

10 In banca dati "fisconline . Per una analisi della sentenza si veda, fra gli altri, A. Borgoglio, Le sanzioni antitrust comminate dalla Comunità europea sono indeducibili, in "il fisco' n. 21/2011, fascicolo n. 2, pag. 3406.

11 In banca dati "fisconline .


12 A tale proposito è utile rammentare che, in base all'art. 15 della citata L. n. 287/1990, nei casi di infrazioni gravi agli artt. 2 e 3 della medesima legge, è disposta l'applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria fino al 10% del fatturato realizzato in ciascuna impresa o ente nell'ultimo esercizio chiuso anteriormente alla notifica della diffida relativamente ai prodotti oggetto dell'intesa restrittiva del­la concorrenza o dell'abuso di posizione dominante.

13 Cfr., per esempio, le recenti sentenze della Comm. trib. prov. di Milano 2 marzo 2011, n. 78 e 28 ottobre 2010, n. 427, nonché la sentenza della Comm. trib. prov. di Matera 4 ottobre 2001, n. 437, tutte consultabili in banca dati "fisconline".


14 Cfr., fra gli altri, G. Zizzo, Condotte illecite e formazione della materia imponibile: il caso delle sanzioni antitrust, in "Rassegna Tributaria" n. 2/2010, pag. 528; M. Beghin, La deducibilità delle sanzioni "antitrust" nella prospettiva della corretta misurazione del reddito d'impresa, in "Rivi­sta di Giurisprudenza Tributaria" n. 6/2011, pag. 522.

1 5 In banca dati "fisconline .

1 6 In banca dati "fisconline .

1 7 S. Fiaccadori, Le contravvenzioni al codice della strada nel reddito d'impresa, in "il fìsco' n. 38/2005, fascicolo n. l,pag. 5969.

1 8 In "il fìsco' n. 38/2011, fascicolo n. 1, pag. 6220, con commento di P. Turis. Si veda, inoltre, F. Dezzani-L. Dezzani, Penalità per ritardata consegna ai clienti: deducibili­tà, in "ilfìsco' n. 39/2011, fascicolo n. 1, pag. 6313.

19 Cfr., a tale riguardo, l'art. 14, comma 4-bis, della L. n. 537/1993, come modificato dall'art. 8 del D.L. n. 16/2012, convertito dalla L. n. 44/2012.


 

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