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>> Anno 2019

Caparra confirmatoria trattenuta

di Giuseppe Rebecca
La Settimana Fiscale / Il Sole 24 ore, Numero 7 - 15 febbraio 2019

Premessa

Caparra trattenuta e Amministrazione Finanziaria

Nel caso di caparra confirmatoria trattenuta dal promittente venditore, per effetto di inadempimento da parte del promissario acquirente, l’Amministrazione Finanziaria si è da tempo pronunciata per l’esclusione da tassazione.

Ovviamente varrà la stessa esclusione nel caso di inadempimento del venditore, per il 50% della caparra (doppia) restituita dal promittente venditore.

Con la risalente Ris. N. 1856 del 27 gennaio 1982 l’Amministrazione Finanziaria aveva infatti “concluso per la non imponibilità della ritenzione, ancorchè in presenza di un fatto economicamente rilevante, in quanto avente carattere meramente risarcitorio non configurante ai fini fiscali un “incremento di ricchezza”.”

Così ha proseguito, questa risoluzione:

“Nel caso di specie, peraltro, ancorchè si sia in presenza di un fatto economico che ha effetto unicamente fra le parti creando un flusso monetario di segno positivo e negativo reciproco, si ha motivo di ritenere che la ritenzione della caparra non configuri, ai fini fiscali, un “incremento di ricchezza”, derivante dall’impiego di capitale, dal godimento di un bene o, più genericamente, dall’attività umana, che costituisce – secondo la più accreditata dottrina – l’elemento essenziale del reddito inteso in senso tecnico, passibile d’imposta. Analogamente, del resto, si è più volte pronunciata anche la giurisprudenza tributaria, sia pure in occasione di decisioni riguardanti i tributi soppressi”.

Nella fattispecie si trattava di un preliminare di cessione di pacchetto azionario da parte di privato. L’Amministrazione Finanziaria ha escluso tale caparra dalla tassazione in modo estensivo, senza porre limitazione alcuna, senza tra l’altro indagare se l’atto di cessione delle azioni sarebbe stato o meno soggetto, come a nostro avviso lo era, a tassazione e senza porre distinzioni sul tipo di caparra.

La esclusione varrebbe quindi sempre, indipendentemente dal tipo di atto da cui deriva la caparra trattenuta, e questo indipendentemente anche dalla tassazione o meno di tale atto, ai fini delle imposte dirette.

Si tenga conto che la fattispecie è estensibile ad altri casi strutturati in modo simile e quindi è da ritenere valido anche un preliminare di compravendita immobiliare.

La caparra trattenuta da un privato

Nel caso di caparra trattenuta da un privato per inadempimento del promissario acquirente si è pronunciata la Cassazione, con la sentenza n. 11307 del 31 maggio 2016.

Invero la fattispecie si riferiva ad una caparra penitenziale, e non confirmatoria, relativa ad una vendita di terreno agricolo, evidentemente tassabile.

La Cassazione nel caso specifico ha confermato le due precedenti sentenze (l’ultima, la CTR della Calabria n. 1824/4/14 depositata il 9 ottobre 2014 ).

“La penale è assoggettabile ad imposizione diretta, in quanto la prestazione principale rimasta ineseguita (cessione dell’immobile) avrebbe costituito reddito ai sensi dell’art. 67, comma 1, del tuir”, e pertanto ha concluso per “la tassabilità della caparra incamerata costituendo la stessa il risarcimento della perdita dei proventi che, per loro natura e in base a quanto sopra considerato avrebbero generato redditi tassabili per un soggetto privato, con il conseguimento di una plusvalenza ai sensi dell’art. 67 del tuir”.

“L’inquadramento della clausola penale rientra pienamente nel disposto dell’art. 6, comma 2, del tuir, secondo il quale sono considerati redditi della stessa categoria di quelli perduti “le indennità conseguite a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di diritti”, concordando la dottrina nell’affermare che, in caso di inadempimento dell’obbligazione principale, la rilevanza dell’imposizione diretta della corresponsione della penale ha per base la visione civilistica della fattispecie come essenzialmente risarcitoria”.

Come si può notare, viene utilizzato il termine “clausola penale” anche se si trattava di caparra penitenziale.

Di questo aspetto se ne è occupato anche il Notariato ( Studio 32/2017/T approvato dalla Commissione Ministeriale Tributaria del 9/3/2017 che tratta di plusvalenze immobiliari in generale).

“L’imponibilità della caparra confirmatoria si verificherebbe solo nel caso in cui i ricavi derivanti dalla vendita o dalla prestazione non concretizzata, fossero risultati a loro volta imponibili. Secondo quanto stabilito dalla Cassazione più recente “(Cass. 11307/16, ancorchè riferita ad una caparra pertinenziale)”, infatti, avendo la caparra natura di risarcimento per il venditore che non ha concluso l’affare, risulterebbe imponibile come provento conseguito in sostituzione di quanto spetterebbe a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi (articolo 6 comma 2 del Tuir). Di fatto risulterebbe avere la medesima natura del reddito derivante dalla mancata vendita del bene immobile. La conseguenza è che se la vendita fosse stata conclusa, e il corrispettivo conseguito non avesse generato materia imponibile, anche la caparra acquisita, al pari della caparra imputata a prezzo, non sarebbe risultata assoggettabile a imposta.

Non si giustificherebbe la diversa rilevanza reddituale della stessa componente a seconda se la si imputi a prezzo oppure acquisita per inadempimento. Andrebbe tassata come lo sarebbe stato se il venditore avesse effettivamente venduto il bene promesso in vendita”.

In definitiva, qualora si fosse in presenza di una vendita che sarebbe stata soggetta ad imposte sul reddito, la caparra trattenuta in seguito all’inadempimento, sia essa confirmatoria oppure penitenziale costituisce reddito della stessa natura, tassabile quindi ex art. 67 lett. a) oppure lettura b), non certamente nella lettera c).

Quindi, interpretazione contrastante con quella data, ancora nel 1982, della stessa Amministrazione Finanziaria, come più sopra riportato.

La caparra penitenziale

Appare opportuno approfondire brevemente la fattispecie caparra penitenziale, sia per le affinità con la caparra confirmatoria, sia per il trattamento che la Cassazione le ha riservato.

La caparra penitenziale (art. 1386 c.c.) è un negozio giuridico accessorio con il quale le parti si attribuiscono, unilateralmente o reciprocamente, un diritto di recesso ad nutum dal contratto, versando contestualmente l’una all’altra una somma di denaro quale corrispettivo per l’esercizio del diritto di recesso. La parte che recede dal contratto perde così la caparra data o deve restituire il doppio di quella che ha ricevuto.

Si tratta in definitiva di un contratto a prestazioni corrispettive, poiché la somma eventualmente trattenuta o pretesa nel doppio costituisce la controprestazione dovuta dalla parte che ha esercitato il diritto di recesso.

La differenza sostanziale tra le due caparre è che con la caparra penitenziale le parti sono libere di recedere, previo pagamento dell’importo stabilito come caparra (o restituire il doppio di quanto incassato), senza poter richiedere né l’esecuzione specifica né tantomeno i danni.

Rispetto alla caparra confirmatoria, nel caso della caparra penitenziale, il recesso non è giustificato dall’inadempimento della controparte, ma costituisce esercizio di diritto, ossia del diritto di pentirsi di avere concluso il contratto; la caparra penitenziale costituisce dunque il prezzo dell’esercizio di tale diritto e deve essere restituita allorchè il recesso non sia più esercitabile.

Un parere discorde

La Cassazione, come si è visto, non fa comunque distinzione alcuna tra caparra penale e caparra penitenziale, e questo particolare aspetto può essere messo in discussione.

Come già detto, la “clausola penale” è quella clausola “con cui si conviene che, in caso d’inadempimento o di ritardo nell’inadempimento, uno dei contraenti è tenuto a una determinata prestazione” con “l’effetto di limitare il risarcimento alla prestazione commessa” (art. 1382 c.c.), mentre invero la caparra penitenziale, come abbiamo visto, è quella clausola che “ha la sola funzione di corrispettivo per il recesso” (art. 1386 c.c.).

Secondo la Cassazione, la caparra penitenziale trattenuta costituisce reddito imponibile. Abbiamo riscontrato un parere diverso, nella dottrina.

L’importo “che una persona fisica, che agisce al di fuori dell’impresa, percepisce come corrispettivo del recesso di cui una controparte contrattuale ha inteso avvalersi per evitare l’esecuzione di un preliminare di compravendita non rientra in alcuna delle fattispecie previste dalle sei categorie reddituali, non potendo essere correttamente ascritta neppure a quella residuale di cui all’art. 67, comma 1, lett. l) non essendovi in senso proprio alcun “obbligo di fare, non fare o permettere” cui la somma possa dirsi collegata. Tale somma di danaro, poi e per definizione, non può essere considerata sostitutiva o risarcitoria di danni consistenti nella perdita di proventi ascrivibili alle fattispecie delle sei categorie. Il recesso, infatti, è una facoltà che deriva (in alcuni caso dalla legge o, in altri casi come quello di specie) da un patto che le parti sono libere di inserire in un contratto per sciogliersi fisiologicamente dagli obblighi di esecuzione (o di continuazione di esecuzione) di esso (art. 1373 c.c.): l’avvalimento di tale facoltà, quindi, non può ad alcun titolo essere considerato alla stregua di un inadempimento foriero di danni da risarcire o di un negozio “sostitutivo” di altri negozi giuridici (ciò che costituisce invece presupposto per invocare l’applicabilità dei principi di cui al comma 2 dell’art. 6 del TUIR).

Ma anche si trattasse di clausola penale, le conclusioni non sarebbero diverse.

“La Cassazione conferma, che la “penale” per l’inadempimento di un contratto di compravendita immobiliare è imponibile per le persone fisiche che la ottengono poiché costituirebbe “ il risarcimento della perdita dei proventi che, per loro natura e in base a quanto sopra considerato avrebbero generato redditi tassabili per un soggetto privato, con il conseguimento di una plusvalenza ai sensi dell’art. 67 del TUIR ”. Ma è evidente, “come il provento che il privato avrebbe conseguito dal contratto di compravendita non sia “la plusvalenza” (reddito ascrivibile a una fattispecie prevista dal TUIR). Conseguentemente, con l’inadempimento del contratto che dà luogo alla percezione della penale il contraente non perde il diritto a percepire il reddito costituito dalla plusvalenza, ma semplicemente somme che avrebbero modificato la propria composizione patrimoniale. A niente rileva, poi, che tali somme avrebbero potuto comportare, a conti fatti, una plusvalenza imponibile: ciò che valorizza l’art. 6, comma 2 del TUIR, infatti, è la causa giuridica che la somma percepita ha rispetto alla vicenda negoziale in cui si inserisce e non le conseguenze fattuali che da tale somma possono derivare sotto altri profili non direttamente e immediatamente attinenti alla vicenda negoziale e risarcitoria stessa (così, chiaramente, anche l’ultimo periodo della ris. Min. n. 1856 del 1982, riferita alla diversa ipotesi di “caparra confirmatoria” ma indicativa in parte qua di un principio valido anche per la “clausola penale” e avente portata generale. [1]

Sulla clausola penale

Sulla natura della clausola penale non vi è uniformità di vedute, in dottrina e giurisprudenza. Abbiamo infatti, due correnti di pensiero:

- secondo la giurisprudenza, la clausola penale ha natura risarcitoria, avendo la funzione di liquidazione anticipata del danno da inadempimento (Cass. 10 giugno 91 n. 6561; Cass. 9 novembre 2009 n. 23706 e Cass. 27 settembre 2011 n. 19702):

- secondo parte della dottrina, invece, la penale ha natura sanzionatoria-punitiva.

Tale diverso inquadramento comporta diversi effetti fiscali.

La caparra trattenuta dall’impresa

La caparra trattenuta da una impresa costituisce una sopravvenienza attiva, tassabile. Si è invero discusso unicamente sulla competenza temporale di tale componente positivo di reddito, se cioè il requisito della certezza sia acquisito al passaggio in giudicato di una sentenza, oppure fin dal momento della richiesta risoluzione contrattuale.

Per la tesi della anticipazione al momento della risoluzione, abbiamo CTR Milano del 30 maggio 2017 n. 2379/17, di diverso avviso rispetto alla CTP di Milano, n. 1890/42/15 del 27 febbraio 2015.

“Nel regime della risoluzione giudiziale il contratto si scioglie solo per effetto della sentenza, sicchè fino al momento in cui il giudice non accoglie la domanda il rapporto contrattuale persiste; alla pronuncia giudiziale si riconosce, pertanto, in tal caso, carattere costitutivo”.

“Come chiarito, ormai da tempo, la suprema Corte, la diffida ad adempiere, prevista dall’art. 1454 c.c., è un atto unilaterale recettizio che produce effetti indipendentemente dalla volontà di accettarla o meno. Essa costituisce un mezzo concesso dalla legge al contraente adempiente per conseguire, nei confronti di quello inadempiente, il vantaggio della risoluzione de iure del contratto, che non contenga la clausola risolutiva espressa e sempre che l’intimato non esegua la prestazione nel congruo termine che gli deve essere prefissato e che, in difetto di diverso termine convenzionale, non può essere inferiore a quindici giorni (Cass. 6/4/1973, n. 953).

Secondo la CTR, quindi, il momento in cui fiscalmente si realizza la sopravvenienza attiva è determinato dalla semplice risoluzione del contratto mediante diffida ad adempiere, non nell’anno di accertamento giudiziale della debenza di tale pagamento.

Altra questione

Un’interessante questione riguarda l’entità della caparra che, se eccessiva, può comportare due effetti. Può essere considerata:

- totalmente nulla, e in questo caso la caparra va restituita alla parte che l’ha corrisposta;

- parzialmente nulla, e in questo caso è potere del Giudice ridurre la caparra nei limiti in cui la stessa risulta non eccessiva.

Nella fattispecie esaminata dall’ordinanza n. 248-21/10/2013 della Corte Costituzionale, che ha respinto la questione di legittimità costituita dall’art. 1385 c. 2 c.c., la caparra versata dal promissario acquirente risultava pari a circa 1/3 del prezzo pattuito.

In altri casi, con caparra pari al 78% del prezzo del contratto preliminare, contratto peraltro caratterizzato anche dalla immissione nel possesso, è intervenuta la Cassazione (n. 13.495 dell’1 luglio 2015) stabilendo che nella fattispecie si trattava di acconti, piuttosto che di caparra, al di là delle diverse previsioni contrattuali, con le ovvie conseguenze del caso.

La deducibilità delle penali contrattuali

Per converso, pare opportuno analizzare anche la deducibilità fiscale delle penali contrattuali.

Questa è stata confermata sempre dalla Cassazione ( n. 16561/2017).

La stessa Amministrazione Finanziaria (circolare 29/E/2011 ) è intervenuta per stabilire il periodo di competenza; relativamente ad una penale dovuta per valori contestati nei confronti di un ente pubblico. Dovrà essere rispettato il principio della certezza, della obiettiva determinabilità e ovviamente dell’inerenza.

Tale penale sarà deducibile nel periodo in cui si è verificato l’evento che ne ha dato origine.

Conclusione

In conclusione, non pare ci sia uniformità di vendite, circa il trattamento fiscale della caparra trattenuta.

La risalente Ris. Ministeriale 1856 del 1982 era per la esclusione tout court da tassazione; la Cassazione (n. 11307/2016) è invece per la tassazione; comunque, anche ove si trattasse di caparra penitenziale. In questo ginepraio di incertezze si muovono i rapporti economici.



[1] Francesco Farri, rivista di Diritto Tributario, Gli svarioni civilistici della Cassazione Tributaria sull’imponibilità IRPEF della caparra penitenziale.

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