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La cessione di un marchio da parte di un privato: trattamento fiscale

di Giuseppe Rebecca
commercialistatelematico.com - 27 settembre 2021

  1. Introduzione

Per marchio si intende quel segno distintivo che ha lo scopo di contraddistinguere tra loro tutti i prodotti ed i servizi messi in commercio nel territorio dello Stato; si tratta di un bene immateriale che gode di una protezione (art. 2569 c.c.). Può essere trasferito sia a titolo definitivo, tramite cessione, sia a titolo temporaneo, tramite licenza d’uso (art. 2573 c.c.).

La cessione è ora svincolata dalla eventuale cessione dell’azienda, e quindi il marchio è trasferibile al di fuori della stessa, anche da parte di privati.

Come ha recentemente sentenziato la Commissione Tributaria Regionale Lombardia n, 2123 del 7 giugno 2021, in riforma di una sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Como, la cessione da parte di un privato di un marchio non è tassabile: “in ambito fiscale equiparare il marchio alle opere di ingegno rappresenta il frutto di una interpretazione analogica che, nel diritto tributario, non è consentita quando l'operazione ermeneutica investe il presupposto dell'imposta. A tale conclusione è pervenuta la CTR lombarda, pronunciandosi sull'appello proposto dal contribuente volto a contestare le conclusioni della CTP, secondo la quale “il marchio oggetto di cessione costituisce opera di ingegno”. I giudici di appello hanno, invece, ritenuto tale conclusione non condivisibile poiché il marchio, come la ditta e l'insegna, è un segno distintivo che gode di una sua tutela in quanto ha la funzione di distinguere prodotti o servizi di un'impresa. Nel caso di specie la CTR ha, pertanto, ritenuto errata la qualificazione del corrispettivo della vendita del marchio in termini di reddito da lavoro autonomo, come avviene, per i redditi derivanti dalla utilizzazione economica, da parte dell'autore o inventore, di opere dell'ingegno (53, c. 2, lettera b del TUIR).”

Questa è la più recente sentenza nota, sul tema.

Analizziamo qui di seguito l’aspetto fiscale relativamente ad una cessione di marchio effettuata da un privato.

 

  1. Aspetti fiscali

Ante T.U.I.R.

L’art. 49 del D.P.R. n. 597/1973 specificatamente comprendeva tra i redditi di lavoro autonomo “i redditi derivanti dalla utilizzazione economica di marchi di fabbrica e di commercio e dalla utilizzazione economica di opere dell’ingegno, invenzioni industriali e simili, quando non sono conseguiti nell’esercizio di imprese commerciali o da società in nome collettivo e in accomandita semplice”.

L’espressione “utilizzazione economica” era solitamente intesa come utilizzo tramite cessione o concessione in uso di beni immateriali. Quindi concessione in uso o cessione, equivalenti a questi fini.

Fino all’entrata in vigore del TUIR (gennaio 1988), i proventi derivanti dalla concessione in uso o anche cessione di un marchio, compiute al di fuori dell’esercizio di impresa, erano considerati redditi di lavoro autonomo a tutti gli effetti.

Il TUIR - D.P.R. 917/1986

L’art. 53, c. 2 lett. b) del TUIR, che tratta dei redditi di lavoro autonomo, è cambiato radicalmente. Ora sono considerati redditi di lavoro autonomo “i redditi derivanti dall’utilizzazione economica, da parte dell’autore o inventore, di opere dell’ingegno, di brevetti industriali e di processi, formule o informazioni relativi ad esperienze acquisite in campo industriale, commerciale o scientifico, se non sono conseguiti nell’esercizio di imprese commerciali”.

In tale articolo non si menzionano più, tra i redditi di lavoro autonomo, quelli derivanti “dall’utilizzazione economica dei marchi di fabbrica e di commercio”. Ne consegue che qualsiasi corrispettivo derivante dallo sfruttamento economico del marchio, tramite cessione o concessione, sembrerebbe ora aver perso i requisiti necessari per essere qualificato come reddito di lavoro autonomo.

Nel silenzio della norma, la dottrina, invero scarna, ha avanzato due tesi esattamente contrapposte: assenza di reddito oppure reddito diverso.

A) Nessun reddito

Iniziamo l’analisi con un riferimento alla relazione ministeriale al T.U.I.R. che sul punto così precisa: “ai redditi derivanti dall’utilizzazione economica di marchi di fabbrica e di commercio non si può riconoscere né natura di redditi di lavoro autonomo, né quella di redditi diversi dato che l’utilizzazione dei marchi d’impresa (mediante cessione o concessione in uso) avviene o in sede di trasferimento dell’azienda o di un ramo di essa o mediante la concessione di licenze non esclusive, e quindi nell’esercizio d’impresa (salvo ipotesi marginali per le quali potrà eventualmente soccorrere l’ampia previsione dell’art. 81 n. 11)”.

La relazione ministeriale faceva riferimento all’originario contenuto dell’art. 81 del T.U.I.R. che allora elencava le diverse ipotesi di rediti diversi in ordine numerico, non alfabetico, e il n. 11) riguardava appunto “i redditi derivanti da attività di lavoro autonomo non esercitate abitualmente o dall’assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere”. La corrispondente fattispecie si trova invece ora disciplinata dalla lettera l) del c. 1 dell’art. 67 del T.U.I.R., così come modificato dal D.Lgs. n. 344/2003.

La relazione prosegue poi precisando che “la titolarità del marchio non può che essere acquisita nell’esercizio d’impresa, nel cui ambito sono deducibili le spese sostenute e che […] appare priva di giustificazione la deduzione forfetaria del trenta per cento di cui al successivo art. 50”. E questo era in effetti il regime vigente nel 1988, essendo stato abolito solo dal 1992 il vincolo della contestale cessione di azienda e marchio (D.Lgs n. 480/1992).

L’abbattimento forfetario dell’imponibile, costituito dai compensi percepiti a fronte dell’utilizzazione economica dei beni immateriali di cui alla lett. b), comma 2, dell’art. 49 (ora art. 53, comma 2, lett. b)), inizialmente era previsto nella misura del 30%, poi ridotta al 25% in sede di approvazione del D.P.R. n. 917/1986.

Analizziamo qualche sentenza, in merito.

La Commissione Regionale del Veneto (sentenza n. 524/19 depositata il 24 giugno 2019), in riforma della sentenza della CTP Padova n. 402/04/2018, si era pronunciata nello stesso senso della CTR Lombardia, di cui alle premesse: “la cessione di un marchio da parte di un privato non è tassabile”.

Nel caso specifico si trattava di un conferimento di marchio, ritenuto tassabile dall’Agenzia delle Entrate. La CTR così si è espressa:

“l’assoggettamento ad imposizione fiscale dell’incremento di ricchezza derivante, come nella fattispecie, dalla cessione o utilizzazione economica dei marchi concessi da privati, non appare, dopo le innovazioni introdotte dal D.Lvo 480/92, espressamente disciplinato dal legislatore. Tale lacuna è stata rilevata da ambedue le parti in causa, e ritenuta colmata unicamente in via interpretativa, oscillando il pensiero a livello dottrinale tra chi sostiene, come i ricorrenti, l’irrilevanza fiscale della fattispecie, e chi invece, come l’Ufficio, la riconduce alle ipotesi generatrici di reddito diverso ai sensi dell’art. 67, comma 1, lett. 1) del Tuir, basando tale assunto sulle risoluzioni 81/E del 2002 e 30/E del 2006 dell’Agenzia delle Entrate, sostenendo che si tratta sempre di reddito e quindi di fattispecie tassabile, al di là delle disposizioni di legge.

Anche a voler accettare la tesi dell’Ufficio, ritiene il Collegio che la cessione dei marchi non possa essere equiparata all’assunzione di un obbligo di fare, non fare e permettere, che è presupposto necessario e sufficiente per ricomprendere il relativo corrispettivo tra i redditi diversi indicati dall’art. 67 del TUIR, che ne prevede l’assoggettamento a tassazione”.

E si tratta di un presupposto che nella fattispecie non sussiste, per due ordini di ragioni.

Innanzitutto non è stata data prova dell’incremento di ricchezza derivante da tale azione, che solo quella teoricamente avrebbe potuto essere tassata. Dall’altro, la cessione non può essere assoluta alla concessione d’uso, il che porterebbe alla tassazione ex art. 67 in quanto la concessione presuppone la proprietà, rientra nel caso specifico è proprio la proprietà che ex art. 23 della Costituzione “nessuna prestazione patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”.

Queste le motivazioni in base alle quali il ricorso del contribuente è stato accolto

Si ricorda anche, nello stesso senso, ancorchè non sufficientemente motivata, la sentenza della CTP di Trento n. 193 dell’1 dicembre 2017. Si ha anche CTP Bari, n. 2122 del 28 ottobre 2019 che così ha sentenziato: “Risulta, pertanto, evidente come il legislatore tributario abbia espressamente ritenuto di escludere, all’interno del T.U., l’imponibilità dei compensi derivanti dalla cessione del marchio ove non riferita all’esercizio d’impresa. L’irrilevanza fiscale della cessione di un marchio effettuata da un soggetto non esercitante attività artistiche o professionali non è venuta meno neanche a seguito della riforma dell’art. 2573 c.c. afferente il regime di circolazione del marchio ad opera dell’art. 83 del D.Lgs. n. 480/1992, con cui è stata prevista la possibilità di cedere il marchio indipendentemente dalla cessione dell’azienda o di un ramo di essa. Si osserva, infatti, come, a seguito della citata riforma civilistica, il legislatore tributario è intervenuto al fine di adeguare il regime impositivo dei redditi derivanti dalla cessione del marchio alla più ampia portata dell’art. 2573 c.c., prevedendo espressamente, però, la rilevanza fiscale dei relativi compensi solamente ove riferibili allo svolgimento di un’attività artistica o professionale.”.

B) Oppure reddito diverso?

L’art. 67 (già art. 81) del T.U.I.R. contiene, l’elencazione tassativa dei redditi rientranti nella categoria dei redditi diversi. In tale articolo vengono ricompresi quei redditi non contemplati nelle altre fattispecie reddituali; sono cioè redditi diversi quelli che, dalla lettura del dettato normativo, “non costituiscono redditi di capitale ovvero se non sono conseguiti nell’esercizio di arti e professioni o di imprese commerciali o da società in nome collettivo e in accomandita semplice, né in relazione alla qualità di lavoratore dipendente”.

Deve pur sempre trattarsi di redditi, ancorchè diversi. In tale ottica potrebbero essere ricompresi nella nozione di reddito anche i proventi conseguiti una tantum in relazione ad attività occasionalmente svolte dal contribuente. Ecco che quindi parrebbe difficile negare la qualificazione di reddito al corrispettivo derivante dalla cessione o dalla concessione in uso del marchio ad opera di un soggetto non imprenditore.

Ma a quale tipo di reddito diverso potrebbero essere assimilate le due ipotesi?

Certamente, non possono configurarsi come redditi diversi ai sensi della lettera g) dell’art. 67 che prevede “i redditi derivanti dall’utilizzazione economica di opere dell’ingegno, di brevetti industriali e di processi, formule e informazioni relativi ad esperienze acquisite in campo industriale, commerciale o scientifico, salvo il disposto della lettera b) del comma 2 dell’art. 53”. Si tratta del caso in cui lo sfruttamento economico del bene immateriale o del diritto avvenga da parte di un soggetto diverso dall’autore o dall’inventore, ma è evidente come la fattispecie non ricomprenda il reddito derivante dall’utilizzazione economica del marchio.

L’unica soluzione possibile porterebbe all’ipotesi di redditi derivanti dall’assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere, prevista dall’art. 67 lett. l) (prima art. 81, lettera l).

La lettera l) dell’art. 67 dispone che concorrono a formare l’imponibile IRPEF, quali redditi diversi, i “redditi derivanti da attività di lavoro autonomo, non esercitate abitualmente o dall’assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere”.

Si tratta di una locuzione che appare generica e foriera di incertezze che appunto si è inteso eliminare mediante la soppressione dell’art. 80 del D.P.R. n. 597/1973.

L’art. 80 del D.P.R. n. 597/1973 stabiliva infatti che “Alla formazione del reddito complessivo, per il periodo d’imposta e nella misura in cui è stato percepito, concorre ogni altro reddito diverso da quelli espressamente considerati dalle disposizioni del presente decreto”. La norma recava una disposizione residuale e di chiusura in cui si voleva far rientrare come reddito tutto quanto percepito dal contribuente. Il legislatore del T.U.I.R., in nome della certezza del diritto tributario e quindi della certezza del presupposto impositivo, ha eliminato l’art. 80 e ha, di converso, arricchito con quante più fattispecie è riuscito ad ipotizzare l’elencazione dei “redditi diversi”.

Il corrispettivo della vendita del marchio effettuata da un soggetto non imprenditore e, naturalmente, anche quello derivante dalla licenza dello stesso, secondo tale orientamento, rileverebbe ai fini della base imponibile IRPEF come reddito diverso ex art. 67 lettera l) del T.U.I.R.).

Si tratterebbe, in entrambi i casi, di un obbligo di permettere, inteso come “consenso rilasciato ad altro soggetto per fare o non fare una determinata cosa”: più precisamente, il soggetto titolare del marchio, cedendo (o concedendo in uso) lo stesso, consente ad un terzo di utilizzarlo ai propri fini.

In ipotesi di licenza del marchio, considerato che il licenziante permette al licenziatario di usufruire del proprio marchio e che la titolarità del bene immateriale rimane in capo al licenziante, tale ipotesi potrebbe anche essere sostenuta; ma lo stesso ragionamento non può evidentemente essere avanzato per la cessione del marchio, caso in cui con più difficoltà si riesce ad intravedere un obbligo di permettere vero e proprio, dal momento che si verifica un trasferimento della proprietà dal cedente al cessionario.

In questo caso il corrispettivo derivante dalla cessione o dalla concessione in uso del marchio costituirebbe reddito diverso ai sensi dell’art. 67, lett. l), del T.U.I.R. e sarebbe soggetto a ritenuta d’acconto nella misura del 20% (art. 25, comma 1, D.P.R. n. 600/73).

Tra l’altro, si consideri che nelle istruzioni della dichiarazione dei redditi per le persone fisiche non c’è un’esplicita indicazione delle ipotesi di cessione o concessione in uso del marchio da parte di soggetto non imprenditore tra i redditi diversi e nemmeno si ritrova traccia delle due fattispecie tra gli esempi citati dall’Amministrazione Finanziaria.

Con la Risoluzione n. 81/E dell’11 marzo 2002, l’Agenzia delle Entrate ha chiarito la portata della norma in esame, precisando che rientrano tra i “redditi derivanti dall’assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere” di cui all’art. 81, lett. l) del T.U.I.R. (oggi art. 67, comma 1, lett. l), “le cessioni o le concessioni in uso dei marchi di fabbrica e di commercio non effettuate da imprenditori”. Nello stesso senso anche Risoluzione A.E. n. 30 del 16 febbraio 2006. Invero si trattava della cessione del nome di uno studio professionale; il contratto è stato ritenuto avere natura obbligatoria. Ma, come rilevato da Susanna D’Alessio e Patrizio D’Annibale (“Compensi per la cessione di un marchio percepiti da soggetti privati: redditi diversi o irrilevanza fiscale ? “, ne IL Fisco, n. 10/2020 p. 923: ”l’Agenzia delle entrate manifesta espressamente le proprie perplessità in merito alla riconducibilità del “nome dello studio professionale” nella categoria dei marchi, all’uopo rilevando che la fattispecie sottoposta alla sua attenzione non atteneva ad una cessione di un marchio bensì alla stipula di un contratto di natura obbligatoria.

Solo nel caso in cui si trattasse davvero di un contratto di natura obbligatoria sarebbe possibile comprendere e condividere le considerazioni formulate dall’Agenzia delle entrate, che è giunta a riconoscere natura di redditi diversi, di cui all’art.67, comma 1, lett. l) del T.U.I.R., ai compensi percepiti a seguito dell’assunzione dell’obbligo di far utilizzare il “nome” dello studio professionale ad un soggetto terzo, dovendosi altrimenti giungere ad una diversa conclusione.”

 

  1. Soggetti non residenti

Per completezza, si evidenzia come la lettera c) del comma 2 dell’art. 23 del T.U.I.R. preveda, invece, esplicitamente la rilevanza impositiva degli atti economici relativi al marchio compiuti da soggetti non residenti.

Infatti, ai sensi della norma, “si considerano prodotti nel territorio dello Stato, se corrisposti dallo Stato, da soggetti residenti nel territorio dello Stato o da stabili organizzazioni nel territorio stesso di soggetti non residenti:[…] c) i compensi per l’utilizzazione di opere dell’ingegno, di brevetti industriali e di marchi d’impresa nonché di processi, formule e informazioni relativi ad esperienze acquisite nel campo industriale, commerciale o scientifico”.

La norma è applicata solamente quando il compenso pagato può essere qualificato come royalty e, pertanto, solamente nell’ipotesi in cui sia connesso all’utilizzazione e allo sfruttamento del bene immateriale; si osserva come la specifica previsione non ci sia, invece, per i soggetti residenti. Non rientrano insomma nella fattispecie i compensi riferibili alla cessione di un bene immateriale, anziché alla sua concessione in uso.

 

  1. Conclusioni

Lo sfruttamento economico del marchio di proprietà di una persona fisica, mediante cessione o concessione in uso, costituisce una fattispecie controversa nella disciplina delle imposte dirette: per poter stabilire se si tratti o meno di reddito e di che tipo si è fatto ricorso ad un confronto tra la normativa ante e post T.U.I.R..

Il reddito generato dalla cessione o dalla concessione in uso di un marchio configurava, fino al 1987, una tipologia di reddito di lavoro autonomo, con diritto all’abbattimento forfetario del 25%; dal 1988 la definitiva eliminazione di entrambe le fattispecie dal dettato normativo lascia aperte due strade alternative.

Il corrispettivo derivante dalla licenza o dalla vendita di un marchio da parte del titolare soggetto non imprenditore potrebbe allora configurare un’ipotesi di reddito diverso oppure di assenza di reddito imponibile.

­L’amministrazione finanziaria si è pronunciata fin da subito per la qualificazione di tale reddito come reddito diverso. Qualche Commissione Tributaria invece è per la esclusione dal reddito. Non ci sono note, al momento, sentenze di Cassazione, su questa tematica.

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