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Licenza/cessione di un marchio registrato da privato. Aspetti fiscali.

di Giuseppe Rebecca
La Settimana Fiscale / Il Sole 24 ore, numero 41 - 31 ottobre 2019

 

Disciplina civilistica, cenni

Il marchio, nella definizione dell’art. 2569 c.c., è quel segno distintivo che ha lo scopo di contraddistinguere tra loro tutti i prodotti ed i servizi messi in commercio nel territorio dello Stato; si tratta di un bene immateriale che gode di una protezione illimitata nel tempo e che può essere trasferito sia a titolo definitivo, tramite cessione, sia a titolo temporaneo, tramite licenza d’uso.

Il successivo art. 2573 c.c., c. 1, così disciplina il trasferimento del marchio: “il marchio registrato può essere trasferito o concesso in licenza per la totalità o per una parte dei prodotti o servizi per i quali è stato registrato, purché in ogni caso dal trasferimento o dalla licenza non derivi inganno in quei caratteri dei prodotti o servizi che sono essenziali nell’apprezzamento del pubblico”.

Dal 1992 (D.Lgs. 480/92) è stato abolito il vincolo con l’azienda; il marchio è quindi ora liberamente trasferibile, indipendentemente dall’azienda o da un suo ramo particolare, per la totalità o per una parte dei prodotti o servizi per i quali è stato registrato.

A queste variazioni civilistiche non ha corrisposto alcuna variazione della normativa fiscale.

 

Disciplina tributaria

Analizziamo la problematica tributaria relativa alla cessione e concessione in uso di un marchio da parte di un soggetto non imprenditore, e confrontiamo le disposizioni del D.P.R. n. 597/1973 con le norme introdotte dal Testo Unico delle Imposte sui Redditi (D.P.R. n. 917/1986, così come modificato dal D.lgs. n. 344/2003).

Ante T.U.I.R.

L’art. 49 del D.P.R. n. 597/1973 comprendeva tra i redditi di lavoro autonomo “i redditi derivanti dalla utilizzazione economica di marchi di fabbrica e di commercio e dalla utilizzazione economica di opere dell’ingegno, invenzioni industriali e simili, quando non sono conseguiti nell’esercizio di imprese commerciali o da società in nome collettivo e in accomandita semplice” .

L’espressione utilizzazione economica era solitamente intesa come utilizzo tramite cessione o concessione in uso di beni immateriali. Quindi concessione in uso o cessione, equivalenti a questi fini.

Nel caso di contratto di licenza o di concessione in uso del marchio:

- si trasferisce il mero godimento del bene;

- il licenziatario acquisisce il diritto di sfruttare il bene nei limiti delle clausole contrattuali (in via esclusiva o no, in via temporanea o illimitata, ecc.);

- il corrispettivo è rappresentato da una percentuale sul fatturato dei prodotti contraddistinti dal marchio (royalty) o da una quota di partecipazione agli utili o, raramente, da una somma corrisposta una tantum.

Nel caso della cessione del marchio:

- si trasferisce la proprietà del bene;

- il cessionario subentra integralmente nella posizione del cedente;

- il cedente perde ogni diritto sul bene ceduto;

- il corrispettivo è costituito da una determinata somma convenuta tra le parti.

Fino al 1° gennaio 1988, i proventi derivanti dalla concessione in uso o anche cessione di un marchio, compiute al di fuori dell’esercizio di impresa, erano considerati redditi di lavoro autonomo a tutti gli effetti.

 

Trattamento ai fini delle imposte dirette – D.P.R. 917/1986

Con l’introduzione del T.U.I.R., la formulazione dell’art. 53, c. 2 lett. b) relativo ai redditi di lavoro autonomo è cambiata radicalmente. Sono, infatti, ora considerati redditi di lavoro autonomo “i redditi derivanti dall’utilizzazione economica, da parte dell’autore o inventore, di opere dell’ingegno, di brevetti industriali e di processi, formule o informazioni relativi ad esperienze acquisite in campo industriale, commerciale o scientifico, se non sono conseguiti nell’esercizio di imprese commerciali”.

L’art. 53 del T.U.I.R. non menziona più, tra i redditi di lavoro autonomo, quelli derivanti “dall’utilizzazione economica dei marchi di fabbrica e di commercio” : Pertanto, qualsiasi corrispettivo derivante dallo sfruttamento economico del marchio, tramite cessione o concessione, sembrerebbe aver perso i requisiti necessari per essere qualificato come reddito di lavoro autonomo.

La dottrina, invero non molto copiosa, ha cercato di interpretare il silenzio della legge al riguardo, tenuto anche conto che si è trattato di una variazione del testo precedente. Sono emerse ipotesi, e cioè che non si è in presenza di alcun reddito oppure che si tratti di reddito diverso.

Esaminiamo le due tesi.

A) Nessun reddito

La relazione ministeriale al T.U.I.R. sul punto così precisa: “ai redditi derivanti dall’utilizzazione economica di marchi di fabbrica e di commercio non si può riconoscere né natura di redditi di lavoro autonomo, né quella di redditi diversi dato che l’utilizzazione dei marchi d’impresa (mediante cessione o concessione in uso) avviene o in sede di trasferimento dell’azienda o di un ramo di essa o mediante la concessione di licenze non esclusive, e quindi nell’esercizio d’impresa (salvo ipotesi marginali per le quali potrà eventualmente soccorrere l’ampia previsione dell’art. 81 n. 11)”.

Invero la relazione ministeriale faceva riferimento all’originario contenuto dell’art. 81 del T.U.I.R. che allora elencava le diverse ipotesi di rediti diversi in ordine numerico, non alfabetico, e il n. 11) riguardava appunto “i redditi derivanti da attività di lavoro autonomo non esercitate abitualmente o dall’assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere”. La corrispondente fattispecie si trova invece ora disciplinata dalla lettera l) del c. 1 dell’art. 67 del T.U.I.R., così come modificato dal D.Lgs. n. 344/2003.

Tanto più, si aggiunge, che “la titolarità del marchio non può che essere acquisita nell’esercizio d’impresa, nel cui ambito sono deducibili le spese sostenute e che […] appare priva di giustificazione la deduzione forfetaria del trenta per cento di cui al successivo art. 50”

Lo schema di Testo Unico delle Imposte sui Redditi prevedeva un abbattimento forfetario dell’imponibile, costituito dai compensi percepiti a fronte dell’utilizzazione economica dei beni immateriali di cui alla lett. b), comma 2, dell’art. 49 (ora art. 53, comma 2, lett. b)), del 30%, poi ridotto al 25% in sede di approvazione del D.P.R. n. 917/1986.

Il tenore delle note governative è chiaro: si presume che gli atti economici relativi alla cessione del marchio abbiano rilevanza impositiva, ai fini delle imposte dirette, solo se compiuti nell’ambito di un’attività commerciale, siano cioè in grado di generare reddito d’impresa.

La cessione del marchio da parte di un soggetto non imprenditore, allora, non può più configurarsi come reddito di lavoro autonomo ai sensi dell’art. 53, comma 2, lett. b) (con relativa deduzione forfetaria delle spese pari al 25%).

In dottrina c’è stato chi, a giustificazione della scelta compiuta dal legislatore, ha sostenuto che “il nuovo Testo unico fornisce un criterio razionale di migliore classificazione quando non considera i marchi di fabbrica e di commercio, né nella sfera del lavoro in proprio, né nell’ambito dei lavori o proventi occasionali, ritenendoli (i marchi di fabbrica e di commercio n.d.a.) giustamente interni alla complessa e dinamica area del reddito d’impresa [1]”.

L’utilizzo del marchio mediante cessione o concessione in uso, dunque, o si lega all’attività economica di un’azienda e produce reddito d’impresa o, quando avviene da parte di un soggetto privato, non genera alcun reddito.

Ma la nuova formulazione dell’art. 2573 c.c., in base al quale la trasferibilità del marchio è ora svincolata da quella dell’azienda, ha valenza in ambito civilistico, non certo in materia tributaria.

La Commissione Regionale del Veneto, con sentenza n. 524/19 depositato il 24 giugno 2019 si riferisce di Commissione Tributaria di Padova n. 402/04/2018, è di questo stesso avviso, e ha detto di no: “la cessione di un marchio da parte di un privato non è tassabile”.

Il caso si riferiva tra l’altro, ad un conferimento di marchio, ritenuto tassabile dall’Agenzia delle Entrate. La CTR così si è espressa:

“l’assoggettamento ad imposizione fiscale dell’incremento di ricchezza derivante, come nella fattispecie, dalla cessione o utilizzazione economica dei marchi concessi da privati, non appare, dopo le innovazioni introdotte dal D.Lvo 480/92, espressamente disciplinato dal legislatore. Tale lacuna è stata rilevata da ambedue le parti in causa, e ritenuta colmata unicamente in via interpretativa, oscillando il pensiero a livello dottrinale tra chi sostiene, come i ricorrenti, l’irrilevanza fiscale della fattispecie, e chi invece, come l’Ufficio, la riconduce alle ipotesi generatrici di reddito diverso ai sensi dell’art. 67, comma 1, lett. 1) del Tuir, basando tale assunto sulle risoluzioni 81/E del 2002 e 30/E del 2006 dell’Agenzia delle Entrate, sostenendo che si tratta sempre di reddito e quindi di fattispecie tassabile, al di là delle disposizioni di legge.

Anche a voler accettare la tesi dell’Ufficio, ritiene il Collegio che la cessione dei marchi non possa essere equiparata all’assunzione di un obbligo di fare, non fare e permettere, che è presupposto necessario e sufficiente per ricomprendere il relativo corrispettivo tra i redditi diversi indicati dall’art. 67 del TUIR, che ne prevede l’assoggettamento a tassazione”.

Tale presupposto, infatti, non sussiste nella fattispecie, per due ordini di ragioni.

Innanzitutto non è stata data prova dell’incremento di ricchezza derivante da tale azione, che solo quella teoricamente avrebbe potuto essere tassata. Dall’altro, la cessione non può essere assoluta alla concessione d’uso, il che porterebbe alla tassazione ex art. 67 in quanto la concessione presuppone la proprietà, rientra nel caso specifico è proprio la proprietà che ex art. 23 della Costituzione “nessuna prestazione patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”.

Ed ecco che la CTR ha accolto il ricorso del contribuente.

Precedentemente, nello stesso senso, anche se forse non adeguatamente motivata, abbiamo la sentenza della CTP di Trento n. 193 dell’1 dicembre 2017.

B) … O reddito diverso?

L’art. 67 (già art. 81) del T.U.I.R. contiene, l’elencazione tassativa dei redditi rientranti nella categoria dei redditi diversi, laddove vengono ricompresi quei redditi non contemplati nelle altre fattispecie reddituali; sono cioè redditi diversi quelli che, dalla lettura del dettato normativo, “ non costituiscono redditi di capitale ovvero se non sono conseguiti nell’esercizio di arti e professioni o di imprese commerciali o da società in nome collettivo e in accomandita semplice, né in relazione alla qualità di lavoratore dipendente” .

È chiaro che deve pur sempre trattarsi di redditi, anche se diversi, e che tali redditi devono costituire un accrescimento patrimoniale imputabile, in rapporto di causa-effetto, ad una fonte produttiva. Nell’ottica del legislatore possono, quindi, essere ricompresi nella nozione di reddito anche i proventi conseguiti una tantum in relazione ad attività occasionalmente svolte dal contribuente. Parrebbe allora difficile negare la qualificazione di reddito al corrispettivo derivante dalla cessione o dalla concessione in uso del marchio ad opera di un soggetto non imprenditore.

Le fattispecie in esame, non essendo più riconducibili nell’ambito del reddito di lavoro autonomo ex art. 53, e nemmeno nel campo del reddito d’impresa ex art. 55, in quanto non conseguite nell’esercizio di imprese commerciali, ben si potrebbero però configurare come redditi diversi.

Tuttavia, inquadrare licenza e cessione del marchio da parte di un privato all’interno dei redditi diversi non è cosa agevole: a quale tipo di reddito diverso potrebbero essere assimilate le nostre due ipotesi?

Certamente, non possono configurarsi come redditi diversi ai sensi della lettera g) dell’art. 67 che prevede “i redditi derivanti dall’utilizzazione economica di opere dell’ingegno, di brevetti industriali e di processi, formule e informazioni relativi ad esperienze acquisite in campo industriale, commerciale o scientifico, salvo il disposto della lettera b) del comma 2 dell’art. 53”. Si tratta del caso in cui lo sfruttamento economico del bene immateriale o del diritto avvenga da parte di un soggetto diverso dall’autore o dall’inventore, ma è evidente come la fattispecie non ricomprenda il reddito derivante dall’utilizzazione economica del marchio.

La soluzione allora più ragionevole, e forse anche l’unica possibile, sembra portare all’ipotesi di redditi derivanti dall’assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere, prevista dall’art. 67 lett. l) (prima art. 81, lettera l) e prima ancora n. 11).

La lettera l) dell’art. 67 dispone che concorrono a formare l’imponibile IRPEF, quali redditi diversi, i “ redditi derivanti da attività di lavoro autonomo, non esercitate abitualmente o dall’assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere”.

Autorevoli interpreti[2] della materia sono giunti a sostenere come proprio in questo gruppo di redditi potrebbero rientrare le fattispecie di cessione e concessione in uso del marchio da parte di un soggetto privato.

Così è stato affermato: “Va precisato che la lett. l), oltre ai redditi occasionali di lavoro autonomo, ricomprende anche quelli derivanti dall’assunzione di ‘obblighi di fare, non fare o permettere’. Tale locuzione appare generica e potrebbe dar luogo a quelle incertezze che si è inteso eliminare mediante la soppressione dell’art. 80 del D.P.R. n. 597/1973.

L’art. 80 del D.P.R. n. 597/1973, cui gli autori fanno riferimento, stabiliva che “Alla formazione del reddito complessivo, per il periodo d’imposta e nella misura in cui è stato percepito, concorre ogni altro reddito diverso da quelli espressamente considerati dalle disposizioni del presente decreto”. La norma recava una disposizione residuale e di chiusura in cui si voleva far rientrare come reddito tutto quanto percepito dal contribuente. Il legislatore del T.U.I.R., in nome della certezza del diritto tributario e quindi della certezza del presupposto impositivo, ha eliminato l’art. 80 e ha, di converso, arricchito con quante più fattispecie è riuscito ad ipotizzare l’elencazione dei “redditi diversi”.

Il corrispettivo della vendita del marchio effettuata da un soggetto non imprenditore e, naturalmente, anche quello derivante dalla licenza dello stesso, secondo tale dottrina, rileverebbe ai fini della base imponibile IRPEF come reddito diverso ex art. 67 lettera l) del T.U.I.R.).

Si tratterebbe, in entrambi i casi, di un obbligo di permettere, inteso come “consenso rilasciato ad altro soggetto per fare o non fare una determinata cosa”: più precisamente, il soggetto titolare del marchio, cedendo (o concedendo in uso) lo stesso, consente ad un terzo di utilizzarlo ai propri fini.

Una simile argomentazione parrebbe sussistere in ipotesi di licenza del marchio, considerato che il licenziante permette al licenziatario di usufruire del proprio marchio e che la titolarità del bene immateriale rimane in capo al licenziante; ma lo stesso ragionamento sembrerebbe alquanto “azzardato” se fatto per la cessione del marchio, caso in cui con più difficoltà si riesce ad intravedere un obbligo di permettere vero e proprio, dal momento che si verifica un trasferimento della proprietà dal cedente al cessionario,

Ad ogni modo, alla luce delle considerazioni fatte, il corrispettivo derivante dalla cessione o dalla concessione in uso del marchio costituirebbe reddito diverso ai sensi dell’art. 67, lett. l), del T.U.I.R. e sarebbe soggetto a ritenuta d’acconto nella misura del 20% (art. 25, comma 1, D.P.R. n. 600/73).

Dal punto di vista operativo, il reddito sarebbe determinato, in entrambi i casi, dalla differenza tra l’ammontare dei proventi percepiti nel periodo di imposta e le spese inerenti, effettivamente sostenute e documentate, che comunque non possono essere superiori all’ammontare dei proventi.

È quanto prevede l’art. 71, comma 2, del T.U.I.R. – Altri redditi: “I redditi di cui alle lettere h), i) e l) del comma 1 dell’art. 81 (art. 67) sono costituiti dalla differenza tra l’ammontare percepito nel periodo di imposta e le spese specificamente inerenti alla loro produzione […]”.

Si rileva come questa interpretazione non scaturisca dalla lettura di una espressa previsione legislativa.

Certo risulta preferibile un atteggiamento prudenziale, ma i dubbi rimangono e parimenti rimane un’estrema incertezza per il comportamento che il contribuente deve tenere nella situazione presa in esame.

Tra l’altro, si consideri che nelle istruzioni della dichiarazione dei redditi per le persone fisiche non c’è un esplicita indicazione delle ipotesi di cessione o concessione in uso del marchio da parte di soggetto non imprenditore tra i redditi diversi e nemmeno si ritrova traccia delle due fattispecie tra gli esempi citati dall’Amministrazione Finanziaria.

Entrambi i casi, insomma, non trovano autonomo spazio nel modello che il contribuente deve predisporre al termine di ogni periodo d’imposta; e non certo perché si tratta di ipotesi reddituali piuttosto rare.

Se si ritiene, dunque, che il corrispettivo della cessione o della concessione in uso del marchio da parte di un privato costituisca reddito, l’importo relativo andrà inserito nel quadro RL (altri redditi), nel rigo RL 16 se la fattispecie è inquadrabile nei compensi derivanti dall’assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere e quindi senza deduzione alcuna. Se si fosse invece di diverso avviso si potrà non considerare reddito ai fini IRPEF il provento derivante dall’utilizzazione economica del marchio, in qualunque modo essa avvenga, e, evidentemente, non prevederne l’indicazione in dichiarazione.

La questione è tuttora aperta e non ha ancora trovato una soluzione giurisprudenziale.

In ogni caso è da motivare il diverso trattamento tra la concessione/cessione dei brevetti e quella dei marchi. Non parrebbe, infatti, esistere alcuna differenza sostanziale, o comunque così rilevante, tra le due fattispecie.

Con la Risoluzione n. 81/E dell’11 marzo 2002, l’Agenzia delle Entrate ha chiarito la portata della norma in esame, precisando che rientrano tra i “redditi derivanti dall’assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere” di cui all’art. 81, lett. l) del T.U.I.R. (oggi art. 67, comma 1, lett. l), “le cessioni o le concessioni in uso dei marchi di fabbrica e di commercio non effettuate da imprenditori”. Nello stesso senso anche Risoluzione A.E. n. 30 del 16 febbraio 2006.

Soggetti non residenti

Per completezza, si evidenzia come la lettera c) del comma 2 dell’art. 23 del T.U.I.R. preveda, invece, esplicitamente la rilevanza impositiva degli atti economici relativi al marchio compiuti da soggetti non residenti.

Infatti, ai sensi della norma, “si considerano prodotti nel territorio dello Stato, se corrisposti dallo Stato, da soggetti residenti nel territorio dello Stato o da stabili organizzazioni nel territorio stesso di soggetti non residenti:[…] c) i compensi per l’utilizzazione di opere dell’ingegno, di brevetti industriali e di marchi d’impresa nonché di processi, formule e informazioni relativi ad esperienze acquisite nel campo industriale, commerciale o scientifico”.

La norma è applicata solamente quando il compenso pagato può essere qualificato come royalty e, pertanto, solamente nell’ipotesi in cui sia connesso all’utilizzazione e allo sfruttamento del bene immateriale; si osserva come la specifica previsione non ci sia, invece, per i soggetti residenti. Non rientrano insomma nella fattispecie i compensi riferibili alla cessione di un bene immateriale, anziché alla sua concessione in uso.

 

Conclusioni

Lo sfruttamento economico del marchio di proprietà di una persona fisica, mediante cessione o concessione in uso, costituisce una fattispecie controversa nella disciplina delle imposte dirette: per poter stabilire se si tratti o meno di reddito e di che tipo si è fatto ricorso ad un confronto tra la normativa ante e post T.U.I.R..

Il reddito generato dalla cessione o dalla concessione in uso di un marchio configurava, fino al 1987, una tipologia di reddito di lavoro autonomo, con diritto all’abbattimento forfetario del 25%; dal 1988 la definitiva eliminazione di entrambe le fattispecie dal dettato normativo lascia aperte due strade alternative.

Il corrispettivo derivante dalla licenza o dalla vendita di un marchio da parte del titolare soggetto non imprenditore configura, allora, un’ipotesi di:

­ reddito diverso derivante da un obbligo di permettere (quadro RL 16 - Mod. Unico 2019 Persone Fisiche);

­ oppure nessun reddito.

Certamente non è motivato il cambio di ipotesi effettuato dal T.U.I.R., con lo spostamento del reddito da lavoro autonomo a reddito diverso.

Si illustra con uno schema il trattamento tributario riservato alle ipotesi di cessione e di concessione in uso del marchio, a seconda che siano compiute da soggetto residente non imprenditore o soggetto non residente, in regime ante e post T.U.I.R..

 

 

Cessione o concessione in uso del marchio da parte di privato – Aspetti fiscali

 

ANTE TUIR (D.P.R. n. 597/1973)

TUIR (D.P.R. n. 917/1986)

SOGGETTI RESIDENTI NON IMPRENDITORI

- concessione in uso del marchio: reddito di lavoro autonomo ex art. 49, comma 2, lett. b).

- concessione in uso del marchio: fattispecie scomparsa dal dettato normativo; due le alternative:

  • reddito diverso ex art. 67, lett. l) – ‘obbligo di permettere’;
  • nessun reddito.

- cessione del marchio: reddito di lavoro autonomo ex art. 49, comma 2, lett. b).

- cessione del marchio: fattispecie scomparsa dal dettato normativo; due le alternative:

  • reddito diverso ex art. 67, lett. l) – ‘obbligo di permettere’;
  • nessun reddito.

SOGGETTI NON RESIDENTI

- concessione in uso del marchio: reddito ex art. 19, comma 1, n. 9.

- concessione in uso del marchio: reddito ex art. 23, comma 2, lett. c).

- cessione del marchio: non costituisce reddito.

- cessione del marchio: non costituisce reddito.

 



[1] Di Ciaccia, “Utilizzazione economica di invenzioni industriali o di marchi di fabbrica e di commercio – Qualificazione fiscale in Casi e questioni della riforma tributaria – Caso n. 413”, in Banca dati I quattro codici della riforma tributaria – Big premium, IPSOA.

[2] Leo – Monacchi - Schiavo, “Le imposte sui redditi nel testo unico”, Giuffrè Editore, 1999, par. 14, p. 1309.

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