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Il caso Morgan Stanley e la débâcle dei derivati dello Stato

di Giuseppe Rebecca
portale Lettera43.it, 12 maggio 2018

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È in corso una causa per danni promossa dalla Corte dei conti per danno erariale nei confronti della banca d’affari Morgan Stanley, dell’ex ministro del Tesoro Domenico Siniscalco, che poi ha anche collaborato con quella banca, dell’ex direttore generale del Tesoro, Vittorio Grilli, dell’ex responsabile della direzione debito pubblico del Tesoro Maria Cannata, ora in pensione, e del direttore del Tesoro Vincenzo La Via, nominato il 23 marzo 2012. Indubbiamente si tratta di una azione molto forte e, a quanto risulta, dovrebbe essere la prima di questo tipo in Italia. L’accusa non è certo di aver agito con dolo, ma di essere stati negligenti nel gestire i costi dei contratti, o forse meglio nello stipularli. La stampa ne sta dando riscontro, anche se con impostazioni diverse. Il Corriere della Sera del 7 maggio scorso, con Antonella Baccaro, titola "La Corte dei conti esagerati" e dubita che ci possa essere una responsabilità illimitata verso la cosa pubblica. La Repubblica sempre del 7 maggio, con Luca Piana, che da tempo si occupa di questo tema, fornisce una storia dettagliata della situazione.

LE RICHIESTE DELLA CORTE DEI CONTI. Il danno complessivo richiesto dalla Corte dei conti è di 3,9 miliardi di euro così ripartito: alla banca d’affari Morgan Stanley i 2,7 miliardi, alla Cannata quasi 1 miliardo, a La Via quasi 96 milioni, a Siniscalco quasi 85 milioni e quasi 20 milioni a Grilli. Il totale supera il costo nominale effettivo subito dallo Stato, 3,1 miliardi di euro, per via del costo di quanto sborsato e per oneri accessori. La banca d’affari è difesa dall’avvocato Antonio Catricalà, ex presidente dell'Antitrust. Il tutto deriva dalla chiusura anticipata di operazioni in derivati effettuata alla fine del 2011, quando il premier era Mario Monti. Le scadenze originarie andavano fino a tutto il 2058 e la banca d’affari si è avvalsa di una clausola contrattuale che, a detta della stessa dirigente del ministero, Cannata, era ignota, fino al 2007. Si tratta di una clausola unilaterale già prevista nell’accordo quadro, master agreement, del 1994 sottoscritto dall’allora direttore generale del Tesoro, Mario Draghi, e altresì prevista da un decreto ministeriale del 1997 a firma dell’allora ministro Carlo Azeglio Ciampi e dello stesso Draghi.

Morgan Stanley aveva la facoltà, al verificarsi di certe condizioni di mercato, tra l’altro nemmeno rilevanti, di chiedere la chiusura anticipata dei contratti. La soglia era di un differenziale di valore di 150 milioni di dollari, con rating all’Italia di tripla A, e di 50 milioni in caso di rating A (ora siamo a livello BBB). Nonostante questi limiti fossero poi stati superati almeno dal 2003, e nel frattempo siano stati stipulati anche molti altri contratti derivati, nel 2011 ecco arrivare la richiesta di chiusura anticipata, con conseguente realizzo della perdita, fino ad allora solo virtuale, di 3,1 miliardi di euro. Dall’articolo di Piana emerge anche che nel 2004 era stato sottoscritto tra le stesse parti un contratto di Swaption: il Tesoro ha venduto l’opzione, incassando 47 milioni, e Morgan Stanley aveva la possibilità di attivare o meno lo Swap. Ma al momento stesso della sottoscrizione pare che il valore del contratto fosse già negativo per 600 milioni, che in pratica corrispondono alle commissioni implicite per la banca, il suo guadagno. Questa operazione è stata poi chiusa nel 2011, con una perdita di 1,3 miliardi di euro.

ALCUNE PREOCCUPANTI VERITÀ. Qualche dato: tra il 2013 e il 2016 l’impatto negativo causato dai derivati di Stato è stato di 24 miliardi di euro (Reuters) e di 8 miliardi nel 2017 (Eurostat). Ricordiamo anche che il valore negativo dei derivati in essere al 31 dicembre 2017 era di 31,8 miliardi. Ma la di là di come andrà l’azione giudiziaria, emergono delle verità abbastanza preoccupanti. La prima è che era stata sottoscritta una clausola, che pare squilibrata, a favore della banca d’affari. La seconda è che al ministero non si ricordavano di questa clausola. La terza è che per far fronte a qualche problema del debito pubblico si è fatto ricorso a strumenti speculativi che non parrebbero essere stati adeguatamente analizzati. Infine, da tutto questo emerge una semplice considerazione: ma nessuno ha fatto i conti di quanto risultavano le commissioni implicite per la banca, al momento della sottoscrizione? Se per l’opzione del 2004 le commissioni erano così elevate, quanto risultavano sugli altri contratti? Questi conteggi dovrebbero essere fatti, e sulla base dei risultati si dovrebbero prendere le relative iniziative.

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