Italia, il fallimento dei derivati pubblici costa caro
di Giuseppe Rebecca
portale Lettera43.it, 15 gennaio 2015
Lo Stato italiano da molti anni, se non erriamo almeno da quando Carlo Azeglio Ciampi era ministro del Tesoro, ha sottoscritto numerosi contratti derivati, soprattutto sui tassi, con le più importanti banche d’affari del mondo anglosassone. E ci ha sempre rimesso. Ma senza andare troppo indietro nel tempo, per non rimpiangere troppe perdite antiche e passate pressochè sempre sotto silenzio, dopo aver anche dato credito di buona gestione a chi si era occupato delle finanze pubbliche statali, veniamo alla situazione recente.
PERDITA POTENZIALE DI 34,4 MLD. Secondo la Banca d’Italia (bollettino del 6 novembre 2014) il valore di mercato, il cosiddetto mark to market, dei derivati sottoscritti dal Tesoro italiano al secondo trimestre 2014 porta a una perdita «solo potenziale» di 34,4 miliardi di euro. La perdita è solo potenziale perché l’operazione non è ancora giunta a scadenza, e quindi il differenziale non è da pagare, al momento. Ma la situazione era questa, e rispetto a similari operazioni in derivati che fossero chiusi giusto allora, con le stesse scadenze e per gli stessi importi, la differenza è appunto di 34,4 miliardi (a fine 2013 era solo, si fa per dire, 29,2 miliardi), differenza che alla fine pagheremo, miliardo più, miliardo meno.
QUELLA LEGGE A FAVORE DELLE BANCHE. Ma cosa fa lo Stato italiano, su richiesta delle banche d’affari? Invece di preoccuparsi, invece di cercare il responsabile, invece di fare quello che farebbe ogni padre di famiglia, cosa si inventa? Una bella legge, anche a favore delle banche. Le banche si fidano sempre meno dell’Italia, nonostante uno spread attuale che ha del sorprendente, e allora chiedono una concreta garanzia da parte dello Stato. Dopo Irlanda e Portogallo, ecco una legge che accontenta appunto il sistema finanziario: il decreto legge del 24 dicembre (ora sospeso, per via della soglia del 3% in materia di sanzioni penali). Il Tesoro è autorizzato a stipulare accordi di garanzia bilaterali in relazione alle operazioni in strumenti finanziari fatte con le banche. Si tratta di garanzie che il Tesoro dovrebbe accantonare, modificando così le condizioni contrattuali in essere. Ricordiamo che il totale delle operazioni in derivati dello Stato era di 161 miliardi di euro di valore nazionale, per lo più sui tassi, esclusi gli enti locali.
NEL 2013 LO STATO HA PAGATO 3,2 MLD. Possiamo ricordare come nel 2013 lo Stato abbia già pagato circa 3,2 miliardi di euro per perdite sui derivati e nel 2012 la semplice ristrutturazione di un derivato (operazione di per sé stessa speculativa) con Morgan Stanley è costata 2,5 miliardi di dollari (allora il ministro del Tesoro era Vittorio Grilli). Da un articolo di Repubblica (26 giugno 2013, di Andrea Greco): «L'esempio forse più anomalo riguarda la revisione dello swap su un nozionale da 3 miliardi scadenza 2036, e modificato il primo maggio 2012», si legge. «Si tratta di un contratto degli Anni 90, in cui Tesoro vendeva alla banca di turno una swaption, ossia l'opzione a entrare in un contratto swap dal 2016 al 2036. Su quei 3 miliardi di debito pubblico, in cambio di un anticipo di cassa ricevuto all'epoca, il Tesoro si impegnò a pagare un futuro tasso fisso del 4,652% su 3 miliardi di propri titoli, ricevendo in cambio l'interesse Euribor sei mesi (attualmente, poco più di zero)».
«PERCHÈ RINEGOZIARE IL CONTRATTO?». Ma - prosegue l'articolo - nel marzo 2012, «con quattro anni di anticipo, lo Stato rinegozia quello swap, e lo trasforma in un nuovo scambio di tassi - sempre fisso contro variabile - su una scadenza inferiore (circa sei anni) e su un controvalore triplicato a 9 miliardi». La Relazione qui si ferma. «Le elaborazioni indicano che quel derivato 'prima versione' aveva un valore negativo per lo Stato di 900 milioni al momento del riassetto. E un valore negativo di 1.350 milioni nella versione rinegoziata», continua Greco. «Perché mai rinegoziare un contratto aggiungendo 450 milioni di perdite attese per l'erario? Anzi, dal marzo 2012 a oggi quel derivato ha aumentato il valore negativo di 1.550 milioni, confermando gli assunti probabilistici secondo i quali solo nel 18% dei casi poteva generare, nel tempo, un beneficio per le casse pubbliche».
Un funzionario governativo: «Gli errori si trasformano in debito»
«Molti errori sono stati fatti negli Anni 90 per far entrare l'Italia nell'euro», racconta un funzionario governativo, «e oggi si trasformano in più debito, nascosto dai conti ufficiali, in un'area molto grigia che al Tesoro solo poche persone sono in grado di comprendere e maneggiare».
Talmente poche, le persone, che è stata notata la nomina di Vincenzo La Via a direttore generale del Tesoro, nella primavera 2012. «Dopo un lungo cursus internazionale», conclude l'articolo, «La Via è tornato in via XX Settembre, dove aveva già operato tra il 1994 e il 2000. E dove aveva firmato alcuni di quei contratti derivati, oggi in fase di riscrittura».
Ricordiamo anche la forte polemica sorta nel 2013 circa il momento dell’entrata dell’Italia nell’area euro, con il deficit dal 1998, base per l’entrata nella zona euro, a 2,7% contro un 7,7% nel 1995.
Ma il ministro Saccomanni ha allora tranquillizzato tutti.
BOOM DI SOTTOSCRIZIONI NEGLI ANNI 90. E molti dei derivati dello Stato italiano sono stati sottoscritti proprio tra il 1991 e il 2001, quando Mario Draghi era direttore generale del Tesoro (Draghi è stato poi vicepresidente di Goldman Sachs, dal 2002 al 2005). E a fronte di questa situazione sui derivati, molto pericolosa, ricordiamo anche cosa si prevede per la spesa pubblica, nel futuro, al di là delle perdite sui derivati. Ante legge di stabilità, la Ragioneria Generale dello Stato preventivava questi dati: nel 2014 835 miliardi di euro di spesa pubblica; nel 2015 833 miliardi; nel 2017 854. La maggior spesa annua era dovuta alle pensioni, nonostante tutte le riforme di questi ultimi anni. Con la legge di Stabilità, queste le nuove previsioni: nel 2014 835 miliardi, nel 2015 839 e nel 2017 860.
829 MLD DI SPESA PUBBLICA NEL 2015. C’è però da dire che alcune riduzioni di imposta (rinnovo del bonus di 80 euro, bonus bebè e credito di imposta per ricerca e sviluppo) sono contabilizzate come spese e non come minori entrate. Correggendo, per noi comuni cittadini, si avrebbe: nel 2014 835 miliardi, nel 2015 829 e nel 2017 850. Calo temporale, ma sempre e comunque forte aumento finale, al 2017. E malgrado il previsto aumento delle spesa pubblica, per il 2017, il deficit è comunque previsto in calo, dalla Ragioneria. E ciò per l’attivazione della clausola di salvaguardia, con l’aumento dell’Iva, dal 2016, e con l’ottimistico aumento previsto del Pil.
NESSUNA RIDUZIONE DELLE IMPOSTE. Indipendentemente dai criteri di classificazione, i dati della Ragioneria dello Stato fanno ritenere che la legge di stabilità 2015 non porterà a una riduzione di imposte, ma solo a una riallocazione del carico fiscale tra lavoro e risparmio (e imposte indirette che potrebbero aumentare, a seguito delle clausole di salvaguardia del 2016 e 2017). In assenza di un taglio della spesa pubblica le imposte, o meglio la pressione tributaria, sono destinate a rimanere costanti anche negli anni a venire. Con buona pace di ogni proclama (si veda la legge delega per la riforma fiscale).