Concessione in licenza di un marchio da parte dei privati: quale trattamento fiscale?
di Giuseppe Rebecca e Michela Ceccon
Il Fisco, n.17 2014
La questione riveste una certa importanza in quanto, con l’entrata in vigore del Testo Unico delle Imposte sui Redditi (D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917) dal 1° gennaio 1988, è scomparsa la normativa che regolava espressamente la fattispecie in esame.
Nella disciplina precedente, dettata dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597, i proventi da concessione in licenza conseguiti da un soggetto privato erano inquadrati e tassati come redditi di lavoro autonomo. Nel TUIR essi non trovano specifica collocazione in alcuna categoria reddituale. L’incertezza dovuta alla lacuna legislativa è aggravata dalla fumosa relazione ministeriale al TUIR redatta nel 1986. L’Agenzia delle Entrate è intervenuta con le risoluzioni dell’11 marzo 2002 n. 81/E e del 16 febbraio 2006 n. 30/E, chiarendo che i compensi in oggetto, per l’Amministrazione Finanziaria, sono tassabili come redditi diversi. Non mancano però opinioni discordanti, anche se invero un po’ datate.
Premessa
Con il contratto di licenza del marchio, si ha la dissociazione tra la proprietà del bene immateriale e il suo utilizzo a fini commerciali. Il licenziatario può realizzare e mettere in commercio prodotti contraddistinti dal marchio in questione per un determinato periodo di tempo, mentre il cedente ne mantiene la proprietà.
C’è incertezza circa il trattamento fiscale dei proventi ottenuti a seguito della concessione in licenza del marchio da parte di soggetto privato.
La fattispecie attualmente non trova specifica copertura legislativa. La lacuna è stata colmata in via interpretativa, ma gli orientamenti sono contrastanti.
La disciplina ante Tuir
In passato, e più precisamente prima dell’introduzione del Tuir, lo sfruttamento economico del marchio da parte di un soggetto privato era espressamente disciplinato all’art. 49, comma 3, lett. b) del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597. In particolare, la disposizione inquadrava “ i redditi derivanti dalla utilizzazione economica di marchi di fabbrica e di commercio e dalla utilizzazione economica di opere dell' ingegno, invenzioni industriali e simili, quando non sono conseguiti nell' esercizio di imprese commerciali o da società in nome collettivo e in accomandita semplice ” nella categoria dei redditi di lavoro autonomo.
Con l’espressione “utilizzazione economica”, ci si riferiva sia alla concessione in uso del marchio, e quindi al trasferimento al licenziatario del godimento del bene dietro corrispettivo (normalmente, una royalty), sia alla cessione del marchio, e quindi al trasferimento della proprietà dello stesso.
La disciplina del Tuir
Con l’entrata in vigore del Tuir, l’art. 49 del D.P.R. 597/1973 (ora art. 53) è stato modificato ed è scomparso ogni riferimento normativo al trattamento fiscale della fattispecie.
L’art. 53, al comma 2, lett. b), fa rientrare tra le ipotesi di reddito di lavoro autonomo “ i redditi derivanti dalla utilizzazione economica, da parte dell'autore o inventore, di opere dell'ingegno, di brevetti industriali e di processi, formule o informazioni relativi ad esperienze acquisite in campo industriale, commerciale o scientifico, se non sono conseguiti nell'esercizio di imprese commerciali ”, senza riprendere i redditi derivanti dalla utilizzazione economica di marchi di fabbrica e di commercio.
L’esigenza di colmare il silenzio del legislatore al riguardo ha portato alla formazione di due orientamenti interpretativi: da un lato, vi è chi sostiene che i proventi derivanti dalla concessione in licenza di un marchio da parte di un soggetto privato possa essere fatta rientrare in via analogica nell’art. 53, comma 2 del Tuir; dall’altro si ritiene che la fattispecie sia esclusa dal novero dei rediti assimilati a quelli di lavoro autonomo. E ancora, nell’ambito di questa seconda impostazione, si scontrano due opinioni. Una parte della dottrina afferma che l’operazione non dia origine ad alcun reddito, l’altra parte sostiene che essa invece generi redditi diversi. Analizziamo di seguito le posizioni adottate dalla dottrina.
a) Applicazione analogica art. 53, comma 2
Secondo una prima tesi, le royalties possono ancora essere ricomprese nella categoria dei redditi di lavoro autonomo, coerentemente con quanto previsto prima dell’entrata in vigore del Tuir. Segnatamente, il marchio potrebbe essere incluso nell’ambito delle “esperienze acquisite in campo commerciale” di cui all’art. 53, comma 2, lett. b). Quest’impostazione risulta però forzata.
Ancora, la dottrina tributaria ha sostenuto che l’elencazione contenuta nella disposizione qui citata non sia tassativa, ma esemplificativa. Di conseguenza, il comma 2, lett. b) conterrebbe una mera esemplificazione di beni immateriali, tra cui deve ritenersi compreso, anche se non espressamente previsto, il marchio[1].
b) Inapplicabilità art. 53, comma 2
In base ad un'altra impostazione, i proventi percepiti in relazione alla concessione in licenza del marchio da parte di un privato non sarebbero più tassabili in qualità di redditi di lavoro autonomo assimilati. Questa seconda soluzione dà a sua volta origine a due diversi orientamenti.
b.1) Nessun reddito imponibile: La tesi secondo cui i compensi percepiti da una persona fisica al di fuori dell’attività d’impresa e professionale eventualmente esercitata in relazione alla concessione in uso di un marchio non generano reddito imponibile è preferita da coloro che valorizzano maggiormente il principio della riserva di legge ribadito all’art. 23 della Costituzione. In base a tale disposizione “Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge.”. Ergo, se manca la disposizione di riferimento per una determinata fattispecie, significa che il legislatore non ha inteso attribuirle rilevanza ai fini della tassazione.
Inoltre, tale impostazione fa leva sulla relazione ministeriale al Tuir del 1986.
Essa afferma che “ ai redditi derivanti dall'utilizzazione economica di marchi di fabbrica e di commercio non si può riconoscere né natura di redditi di lavoro autonomo, né quella di redditi diversi dato che l’utilizzazione dei marchi d’impresa avviene o in sede di trasferimento dell'azienda o di un ramo di essa o mediante la concessione di licenze non esclusive, e quindi nell’esercizio d’impresa (salvo ipotesi marginali per le quali potrà, eventualmente, soccorrere l’ampia previsione dell’art. 81, n.11) ”
Dal dato lessicale, si evince che lo sfruttamento economico dei marchi d’impresa rileva solo se compiuto nell’ambito di un’attività imprenditoriale, producendo pertanto reddito d’impresa. Al di fuori di tale ipotesi, parrebbe allora non configurarsi reddito rilevante ai fini delle imposte sul reddito.
Secondo parte della dottrina, il motivo per cui il legislatore nella nuova versione dell’art. 49 non ha esplicitamente ripreso i marchi è che “il nuovo testo unico fornisce un criterio razionale di migliore classificazione quando non considera i marchi di fabbrica e di commercio, né nella sfera del lavoro in proprio, né nell’ambito dei lavori o proventi occasionali, ritenendoli giustamente interni alla complessa e dinamica area del reddito d’impresa” [2].
Tuttavia, occorre effettuare una considerazione alla luce dell’evoluzione della disciplina civilistica del trasferimento del marchio. L’art. 2573 del codice civile, originariamente prevedeva che il marchio potesse essere ceduto solo unitamente all’azienda o ad un ramo particolare della stessa, avvalorando l’ipotesi della rilevanza solamente nell’ambito del reddito d’impresa della fattispecie. Essendo il marchio segno distintivo d’impresa, il soggetto cedente doveva essere necessariamente imprenditore.
Con il D. Lgs. 4 dicembre 1992, n. 480, art. 83, tale disposizione è stata modificata ed è stata prevista la possibilità di cedere il marchio indipendentemente dal trasferimento dell’azienda o di un suo ramo. Di conseguenza, si ritiene che la posizione dottrinale qui in esame abbia perso significato.
Inoltre, questa soluzione non è ragionevole, in quanto si finisce per tassare o non tassare fattispecie assimilabili solo per la diversa qualificazione del bene immateriale.
b.2) Reddito diverso: L’orientamento in base al quale i compensi relativi alla concessione in licenza dei marchi da parte di un soggetto privato genererebbe reddito imponibile, guarda alla relazione ministeriale al Tuir secondo un’altra prospettiva. Specificatamente, la fattispecie può essere ricondotta alla categoria dei redditi diversi, in ragione delle richiamate “ipotesi marginali per le quali potrà, eventualmente, soccorrere l’ampia previsione dell’art. 81 (ora, art. 67, n. d. AA.), n.11”[3].
L’art. 67 del Tuir, che apre il Capo VII sui redditi diversi, ricomprende un’elencazione tassativa di eterogenee fattispecie reddituali che non possono essere ricondotte alle altre categorie di reddito individuate all’ art. 6, comma 1, del Tuir.
Delle tipologie di redditi diversi contemplate nel sopracitato art. 67, si ritiene che l’unica ipotesi in cui possa essere fatto rientrare il caso in analisi sia quella prevista al comma 1, lett. l). Essa si riferisce, in maniera generica, ai “ redditi derivanti dall’assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere”. Segnatamente, la fattispecie in questione può essere fatta rientrare tra gli obblighi di permettere.
Tale pensiero trova conferma in quanto affermato dall’Agenzia delle Entrate nella risoluzione del 16 febbraio 2006 n. 30/E. Quest’ultima stabilisce infatti che le somme percepite dal titolare del marchio “ assumono rilevanza anche ai fini della determinazione dei redditi di tale soggetto. Tali importi vengono, infatti, corrisposti a fronte dell’assunzione di obblighi ben precisi che consistono nel permettere ad un altro soggetto l’utilizzo del proprio marchio ”. In particolare, “ l’importo percepito a fronte di tale obbligo deve quindi essere assoggettato a tassazione in capo al soggetto percipiente in applicazione della disposizione dettata dall’articolo 67, comma 1, lettera l), del Tuir ”.
Questo provvedimento ribadisce l’orientamento dell’Agenzia delle Entrate in materia già espresso nella risoluzione dell’11 marzo 2002, n. 81/E [4].
Se si accede a tale impostazione, occorre considerare che il quantum rilevante ai fini delle imposte sul reddito va determinato sottraendo all’ammontare percepito nel periodo d’imposta le spese specificamente inerenti alla loro produzione, secondo quanto previsto dall’art. 71, comma 2, del Tuir.
Trattamento fiscale per i soggetti non residenti
Con riferimento ai soggetti non residenti, non si pone invece la questione relativa al trattamento fiscale dei compensi percepiti a seguito della concessione in licenza di un marchio da parte di un privato.
L’art. 23 del Tuir, nel Capo I dedicato alle Disposizioni generali, si occupa dell’applicazione dell’imposta nei confronti di soggetti non residenti. Tale disposizione, specificatamente al comma 2, lett. c), riprende quanto già statuito dall’art. 19, comma 1, n. 9 del D.P.R. 597/1973 e stabilisce che si considerano prodotti nello Stato, e quindi tassabili sulla base del criterio della fonte, i compensi derivanti dallo sfruttamento economico dei marchi d’impresa corrisposti dallo Stato, da soggetti residenti nel territorio dello Stato o da stabili organizzazioni nel territorio stesso di soggetti non residenti, imprenditori e non.
Il fatto che il legislatore abbia previsto una simile disposizione solamente con riferimento ai soggetti non residenti, al fine di recuperare a tassazione il reddito da questi percepito derivante dall’utilizzazione economica del marchio ed avente fonte nel territorio dello Stato, lascia piuttosto perplessi. Come già affermato, il Tuir, a differenza della normativa precedentemente in vigore, non regola specificamente la fattispecie in esame con riferimento ai soggetti privati residenti, e questo pare essere sintomatico di un difetto di coordinamento tra le norme che disciplinano l’imposizione sul reddito.
Conclusione
In conclusione, la concessione in licenza di marchi da parte di soggetti privati non è espressamente disciplinata dal legislatore. Tale lacuna è stata colmata unicamente in via interpretativa, ma anche a livello dottrinale il pensiero non è univoco. Da un lato, si sostiene l’irrilevanza fiscale della fattispecie, dall’altro invece essa viene ricondotta alle ipotesi generatrici di reddito diverso ai sensi dell’art. 67, comma 1, lett. 1) del Tuir.
Sulla problematica è intervenuta l’Agenzia delle Entrate con le risoluzioni 81/E del 2002 e 30/E del 2006, chiarendo che si tratta sempre di reddito e quindi di fattispecie tassabile, al di là delle disposizioni di legge.
Anche se si può sostenere il contrario, pare difficile non adeguarsi a quest’interpretazione.
Fino a che non il legislatore non interverrà sulla questione, il problema rimarrà comunque aperto.
D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597 |
D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 |
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Soggetti residenti non imprenditori |
Art. 49, comma 2, lett. b): reddito di lavoro autonomo |
Tre alternative: - Reddito di lavoro autonomo ex art. 53, comma 2, lett. b)[5]; - Nessun reddito[6]; - Reddito diverso ex art. 67, comma 1, lett. l)[7] |
Soggetti non residenti |
Art. 19, comma 1, n. 9), reddito imponibile |
Art. 23, comma 2, lett. c), reddito imponibile |
Tabella 1: Trattamento fiscale dei proventi da concessione in licenza di un marchio da parte di un soggetto privato
[1] Si veda Greggi M., Profili fiscali della proprietà intellettuale: le royalties nelle imposte dirette, 2008, p. 129 ss.
[2] Di Ciaccia, Utilizzazione economica di invenzioni industriali o di marchi di fabbrica e di commercio – Qualificazione fiscale, in “Casi e questioni della riforma tributaria – Caso n. 413”, in banca dati “I quattro codici della riforma tributaria – Big Premium”, Ipsoa.
[3] Si veda Leo M., Le imposte sui redditi nel Testo Unico, Tomo I, Giuffrè Editore, Milano, 2006, p. 1073 e F. D’Ayala Valva, I redditi di lavoro autonomo nel T.U.I.R. N. 917 DEL 22 DICEMBRE 1986, in Rassegna Tributaria n. 6/1989, p. 312.
[4] In particolare, la risoluzione n. 81/E dell’11 marzo 2002 così afferma “nella locuzione utilizzata dal legislatore dell’articolo 81, in verità assai generica, rientrano le cessioni o le concessioni in uso di marchi di fabbrica e di commercio non effettuate da imprenditori
[5] Si veda Greggi M., op. cit., p. 129 ss.
[6] In tal senso, Di Ciaccia, op. cit.
[7] A favore di tale ipotesi, Leo M., op. cit., p. 312, e le risoluzioni dell’Agenzia delle Entrate n. 81/E del 2002 e n. 30/E del 2006.