Patti di famiglia: un fallimento annunciato
di Giuseppe Rebecca
Contabilità Finanza e Controllo, N. 11/2012*
I patti di famiglia sono uno strumento giuridico relativamente nuovo, introdotto in Italia dal 2006 legge 55 del 14 febbraio 2006, entrata in vigore il 16 marzo 2006) su istanze del mondo imprenditoriale. L’obiettivo primario era quello di consentire agli imprenditori un passaggio generazionale delle loro aziende facile e senza troppi intoppi.
II patto di famiglia nasce con riferimento a raccomandazione della Comunità Europea (n. 94/1069 del 7 dicembre 1994). Come sempre e a maggior ragione quando è tirata in ballo l’Europa, è interessante leggere il contenuto di quanto richiamato. Ora, al di là della vetustà delle raccomandazioni, appunto del 1994 (per 12 anni tutti se ne erano dimenticati, salvo qualche Commissione di studio, come per esempio quella del Prof. Rescigno), la stessa è per lo più indirizzata a dare indicazioni di agevolazioni fiscali. E queste, in parte, erano state già da tempo recepite dall’Italia. Manca ancora invero l’esenzione, anche solo parziale, della plus su cessione di azienda da imprenditori over 55 anni e le agevolazioni per il reinvestimento della plus, come pure le agevolazioni per la cessione dell’azienda ai dipendenti, previsioni che la raccomandazione fa.
Quanto al patto di famiglia, l’unico richiamo possibile è solo allo spirito generale, quello cioè di agevolare il passaggio delle aziende, nulla più.
La successiva comunicazione europea (n. 98/C 93/2002) è entrata più nello specifico, a tutela dell’impresa e del suo passaggio, sempre però senza toccare la questione delle quote di legittima. La situazione di base è nota e da tutti condivisa; quando le aziende passano ai figli, molto spesso si vengono a creare problematiche di vario tipo e ben oltre metà delle aziende non supera il primo passaggio, mentre solo il 15% superali secondo. Questo accade in Italia, ma non solo da noi. Le statistiche note danno più o meno gli stessi risultati anche all’estero.
Ciononostante, il patto di famiglia non decolla tra gli imprenditori, un po’ per caratteristiche proprie degli imprenditori stessi, un po’ per le problematiche che in ogni caso ancora sussistono e un po’ anche perché, in definitiva, pare non tutelare sufficientemente i legittimari non assegnatari. Escluso che essi, partecipanti all’atto, rinuncino a quanto loro spettante (non si vede poi perché la stessa norma — art. 768-quater, comma 2 - preveda tale ipotesi, tra l’altro unico caso possibile in materia di diritto successivo, quasi come fosse il caso normale o comunque il più frequente in presenza di aziende), si possono venire a creare delle situazioni critiche, ai fini della riduzione e/o collazione, quando la liquidazione dei legittimari è fatta direttamente dal disponente, oppure in presenza di donazioni a terzi. Parrebbero problematiche non risolvibili, a oggi.
Quali le cause di questo insuccesso dell’istituto dei patti di famiglia? Molteplici e di diversa origine. Si possono riassumere in due macro-aspetti:
- da una parte, la complicata applicazione pratica;
- dall’altra e soprattutto, si potrebbe dire, il mancato coordinamento con la riforma del diritto successorio. Senza una variazione di questo, il patto di famiglia non potrà mai sicuramente decollare.
Il difficile passaggio
Le difficoltà nel passaggio sono spesso imputate alle norme o meglio alla carenza di norme che agevolino appunto questo passaggio.
Si tratta di una tesi diffusa, ma a nostro avviso errata e comunque in ogni caso fuorviante. E pacifico come una buona legge possa agevolare il passaggio generazionale, ma da sola non costituisce certamente elemento sufficiente. Il momento del passaggio di un’azienda è caratterizzato da così tante problematiche, di tutti i tipi, che l’aspetto normativo a noi pare il meno importante di tutti. Ai figli è richiesto desiderio di subentrare, sono richiesti entusiasmo, competenza, carattere e, in caso di fratelli, predisposizione all’accordo o comunque una divisione di competenze e, se possibile, anche del patrimonio. E qui si tocca un tasto che potrebbe essere il problema di base.
Il patto di famiglia ha rappresentato, come si è detto, il primo tentativo senza successo,[1] in Italia, di agevolare giuridicamente il passaggio delle aziende ai figli, o meglio, a un figlio. Da un punto di vista fiscale, la questione era già da tempo stata affrontata in modo adeguato, così da non costituire più un problema. Si può ritenere «condivisibile l’idea che l’intervento del legislatore in materie afferenti il diritto dell’impresa debba sottrarsi alla retorica della liberazione delle energie naturali dell’impresa da vincoli legislativi che ne restringono la libertà (secondo lo slogan “meno diritto, più mercato”), non possiamo allora condividere il messaggio “promozionale” che ha salutato l’introduzione del patto di famiglia nel 2006, in base al quale la novella avrebbe avuto il pregio di liberare le imprese dai vincoli del diritto ereditario italiano offrendo loro uno strumento con cui liberamente programmare i destini dell’impresa in previsione della morte dell’odierno imprenditore».[2]
La normativa sul patto di famiglia è complicata e comunque senza la revisione del diritto successorio rimane di impossibile applicazione pratica.
E di tutta evidenza come l’estensore della norma non si sia mai posto nei panni delle parti possibilmente interessate a un patto di famiglia. Allora il dibattito dovrà vertere sul diritto ereditario e sulla sua possibile riforma. Se ne parlerà più avanti.
La struttura del patto di famiglia - Generalità
Con il patto di famiglia si è consentito all’imprenditore, o al titolare di partecipazioni (si ritiene di controllo), di cedere in vita la propria azienda o le partecipazioni a un figlio e ciò con effetto immediato (salvo condizioni particolari, pure possibili) con obbligo del figlio di procedere alla liquidazione, eventualmente anche differita, degli altri eredi chiamati appunto “non assegnatari”.
Già in questa previsione sta tutto l’insuccesso dell’istituto e non poteva che essere così. Da quanto risulta, pochi sono i patti di famiglia stipulati in Italia dal 2006. Abbiamo avuto occasione di analizzarne qualcuno ed era più un tentativo di soluzione che una soluzione vera e propria. Intanto si cedevano solo in parte le partecipazioni della società di famiglia, e solo per la nuda proprietà, trattenendo quindi quota parte in usufrutto e poi, in via del tutto cautelativa, era stata inserita anche una clausola che dava al proponente la possibilità di recesso.
Tenuto conto dell’andamento aziendale, ove entro un periodo di qualche anno successivo alla stipula del patto i risultati economici non fossero stati sufficientemente remunerativi, era stata prevista la revoca del patto; i risultati erano legati a una serie specifica di indici e di parametri, non superando i quali il disponente si era riservato appunto di “riprendere” le partecipazioni.
Non pare essere questo lo spirito dei patti di famiglia.
Le disposizioni
L’imprenditore (titolare di azienda oppure di quote di controllo di società) può assegnare l’azienda o le partecipazioni a uno o più eredi, escludendo gli altri legittimari, tra cui in ogni caso il coniuge. Così prevedono gli artt. Dal 768 -bis al 768-octies cod. civ., introdotti dalla legge 55/2006. La norma così precisa: «è patto di famiglia il contratto con cui, compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare e nel rispetto delle differenti tipologie societarie, l’imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l’azienda, e il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote, a uno o più discendenti». Il disponente può così attribuire, in vita, l’azienda e/o le partecipazioni a uno o più legittimari, ponendo a carico di questi la liquidazione degli altri legittimari, i cosiddetti legittimari non assegnatari.
E così consentita, per la prima volta in Italia, una specifica deroga al divieto dei patti successori. La struttura, come anticipato, non ha avuto alcun successo. Ne analizziamo qualche aspetto problematico, per poi, nelle conclusioni, riprendere varie ipotesi di riforma.
I punti controversi ancora oggi sono i seguenti:
1. A chi compete effettuare la liquidazione ai legittimari non assegnatari? Può sostituirsi il disponente al beneficiario?
2 I beni oggetto di patto di famiglia sono da ricomprendere o no ai fini del calcolo di eventuali lesioni della quota dei legittimari?
3. Quali effetti su donazioni precedenti?
4. Altri aspetti.
Li analizziamo specificamente.
A chi compete effettuare la liquidazione ai legittimari non assegnatari?
Nel patto di famiglia il disponente destina l’azienda a un erede legittimario. A chi spetterà liquidare gli eredi legittimari non assegnatari dell’azienda? La norma prevede che ciò spetti all’assegnatario: potrà essere sostituito dal disponente? Taluno sostiene la tesi della possibilità di liquidare i legittimari non assegnatari da parte del disponente, facendo riferimento alla relazione al disegno di legge, che appunto ciò prevede. Però, ove questo fosse l’orientamento, la problematica della valutazione dell’azienda e/o delle azioni o quote societarie che, ai fini del patto famiglia, deve essere fatta con riferimento alla data della stipula dello stesso patto di famiglia (e nemmeno potrebbe essere diversamente) mal si concilia con questa impostazione.
Il procedimento proposto dal patto di famiglia (i legittimari non assegnatari, se non rinunciano, sono liquidati dei loro diritti) funziona bene solo con liquidazione da parte del beneficiario; l’istituto non potrà invero mai funzionare, da un punto di vista pratico, con la liquidazione da parte del disponente, anche se in realtà così si sta facendo nella pratica. E ciò non per gli effetti del momento, ma per quanto potrà accadere all’apertura della successione. Relativamente alla compensazione, così prescrive la norma (art.768-quater, comma 2, cod. civ.): «Gli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie devono liquidare gli altri partecipanti al contratto, ove questi non vi rinunzino in tutto o in parte, con il pagamento di una somma corrispondente al valore delle quote previste dagli artt. 536 e segg; i contraenti possono convenire che la liquidazione, in tutto o in parte, avvenga in natura».
Ne consegue che dapprima si dovrà determinare il valore dei beni oggetto della liquidazione (azienda e/o partecipazioni), dopodiché si dovranno calcolare le correlate quote spettanti ai legittimari per legge e infine determinare le modalità di liquidazione (denaro e/o natura). Pacificamente la liquidazione è obbligatoria, e non poteva che essere così, anche se ne è consentita, e a dire il vero non se ne comprende appieno la ragione, la rinuncia in tutto o in parte da parte dei legittimari.
La norma prevede che la liquidazione ai legittimari non assegnatari spetti agli assegnatari. Questa ipotesi è stata subito criticata dalla dottrina, poiché nella realtà il beneficiario potrebbe non possedere risorse sufficienti per provvedere alla compensazione. L’assegnatario, anche per la prevedibile giovane età, di norma ha un patrimonio limitato. L ben vero che gli è comunque concesso un determinato lasso di tempo per reperire cespiti da monetizzare o somme di danaro da destinare alla liquidazione dei non beneficiati dal patto, risorse che potrebbe anche trovare nella stessa azienda oggetto del patto, ma ciò, al di là dell’eventuale impoverimento dell’azienda, non sarà certamente facile.
Un problema in più sono le garanzie che l’erede assegnatario può dare agli altri eredi in caso di differimento dell’onere. Che garanzie potrà avere l’erede non assegnatario, in sede di sottoscrizione del patto? Infine, da non sottovalutare è l’aspetto temporale. Il legittimario assegnatario viene di norma in possesso dell’azienda (in tutto o in parte) dal momento della stipulazione del patto, salvo accordi diversi; gli altri eredi potrebbero trovarsi nella condizione di dovere attendere. Appare evidente che potrebbero crearsi situazioni non sostenibili, proprio per l’impossibilità pratica di raffrontare valori temporali molto diversi tra loro e con rendimento differito, dei quali non si è tenuto conto, salvo esplicito accordo in tale senso. Troppa diseguaglianza per i legittimari non assegnatari.
Si ritiene che la compensazione possa essere effettuata anche dal disponente stesso attraverso il cosiddetto patto verticale, opposto allo schema orizzontale nel quale l’imprenditore attribuisce l’azienda o le partecipazioni a un discendente e sarà poi quest’ultimo a compensare i legittimari. In estrema sintesi, nel patto verticale l’imprenditore assegna l’azienda o le partecipazioni societarie a un discendente e provvede a liquidare gli altri. E questo è proprio il caso, da taluni peraltro ritenuto anche non corretto, che, come si è visto, può dare origine a problematiche di assegnazione agli eredi.
Nel caso in cui la liquidazione fosse effettuata direttamente dal disponente, non necessariamente si dovrà verificare la corrispondenza tra il valore del credito vantato dagli eredi verso l’assegnatario dell’azienda e il valore del bene trasferito dal disponente stesso. Secondo alcuni, pertanto, ove tale valore (al netto di quanto attribuito ai legittimari non assegnatari) dovesse superare la quota di legittima sull’azienda o sulle partecipazioni societarie, l’eccedenza andrebbe trattata come liberalità e come tale soggetta comunque a collazione e all’azione di riduzione, al momento dell’apertura della successione. In caso contrario, ne potrebbe derivare un pregiudizio per l’assegnatario; quest’ultimo, però, ove dovesse ritenere lesi i suoi diritti, molto semplicemente avrebbe potuto non partecipare all’atto, astenendosi dalla richiesta sottoscrizione. In base alla norma attuale, infatti, è richiesta la sottoscrizione contemporanea da parte di tutti i legittimari e anche del coniuge, per la costituzione del patto di famiglia. Nel caso in cui invece il valore liquidato dovesse essere inferiore rispetto alla quota di legittima sull’azienda o sulle partecipazioni societarie, il partecipante non assegnatario, accettando di ricevere quanto datogli, manifesterà così in modo del tutto inequivocabile l’intenzione di rinunciare alla liquidazione della sua quota di legittima relativamente (e limitatamente) all’oggetto del patto di famiglia.
In conclusione, i partecipanti non assegnatari dell’impresa, ex art. 768 -quater, comma 2, cod. civ, avranno diritto sul valore di questi beni a una quota pari a quella individuata, in misura diversa a seconda della qualità e del numero dei legittimari, dagli artt. 537 e segg. cod. civ. La base di calcolo per determinare il valore delle quote riservate ai non assegnatari dell’azienda è rappresentata esclusivamente dai beni attribuiti ex pacto.
Pertanto, una volta stabilito il valore dell’impresa, valore che appunto si considera quale parametro per la liquidazione della legittima spettante ai non assegnatari, al momento della stipula del patto di famiglia, i mutamenti di valore dell’azienda successivamente intervenuti non potranno ovviamente acquisire rilievo alcuno. I partecipanti non beneficiati dal patto avranno così diritto a tale liquidazione. La base di calcolo è coincidente con la massa patrimoniale costituita dai soli beni alienati tramite il patto e il valore della massa è da intendersi ancorato, anche nei confronti di legittimari sopravvenuti, alla valutazione effettuata dai contraenti al momento della stipula del patto stesso. Ciò mal si concilia ovviamente con ipotesi di future azioni di riduzione, essendo necessariamente diversa la base di riferimento temporale.
Beni ricompresi o no ai fini del calcolo di eventuali lesioni delle quote dei legittimari non assegnatari
Nel patto di famiglia rileva il valore attribuito in contratto (art. 768-quater, comma 3, cod. civ). Non si applicano, infatti, le norme sulla determinazione del valore al tempo dell’aperta successione ex artt. 747-750 cod. civ. Questo valore (che può riguardare l’azienda o le partecipazioni sociali), necessario per effettuare i conteggi ai fini della liquidazione delle quote, è liberamente determinabile dalle parti al momento stesso della stipula del patto.
È indubbiamente consigliabile fare predisporre anche una perizia da un esperto, meglio se asseverata, da allegare al patto stesso. Ciò potrebbe rivelarsi utile in futuro, anche nell’eventualità in cui successivamente alla stipula dovessero tra l’altro sopravvenire dei legittimari. Nello stesso patto di famiglia è certamente opportuno menzionare il criterio di determinazione del valore adottato, [3] prestando anche attenzione all’eventuale opportunità di attribuire un premio di maggioranza alle partecipazioni oggetto di trasferimento che dovesse integrare in capo all’assegnatario il controllo dell’impresa.
Per specifica previsione di legge, quanto abbiano ricevuto i contraenti del patto di famiglia non è soggetto a collazione, né a riduzione (art. 768-quater, ultimo comma, cod. civ). Si verifica così il definitivo passaggio della proprietà dell’azienda, o delle partecipazioni sociali, in capo all’assegnatario, essendo appunto precluso l’assoggettamento alle azioni di riduzione e collazione di tale attribuzione. Si ritiene altresì che non sia peraltro soggetto a collazione e riduzione nemmeno quanto i legittimari non assegnatari abbiano eventualmente ricevuto ex art. 768-quater, comma 3, cod. civ, indipendentemente dal fatto che le assegnazioni siano avvenute tramite il patto di famiglia o per mezzo di successivi contratti collegati. Anche questi soggetti, infatti, sono qualificabili come contraenti, le cui attribuzioni patrimoniali non sono dunque soggette a collazione e riduzione (art. 768-quater, ultimo comma, cod. civ).
Ma il patto di famiglia non è esentato dalla riunione fittizia.[4]
La questione di base è se il trasferimento dell’azienda con il patto di famiglia debba o meno essere considerato per determinare la quota di cui il
testatore può disporre. Ove la risposta fosse affermativa, nel caso specifico analizzato in note non ci sarebbe alcuna lesione di legittima, come
visto sopra. Ci sono due teorie in merito, contrapposte. Secondo la prima teoria, l’esclusione da riduzione e collazione, prevista dall’art.
768-quater, ultimo comma, cod. civ, non determina l’irrilevanza del trasferimento ai fini della riunione fittizia e dell’imputazione ex se, salvo
dispensa. E allora non si vede perché riconoscere al beneficiario anche l’ulteriore vantaggio costituito dall’esenzione legale dall’imputazione ex se,
salvo dispensa da parte del disponente, e dalla riunione fittizia. Ovviamente, nell’imputare ex se, rispetto al patrimonio del disponente, il valore
del bene produttivo trasferito, si dovrà detrarre quanto eventualmente corrisposto ai legittimari ex art. 768-quater, comma 2, cod. civ. Secondo altra
teoria, invece, il bene produttivo non può essere preso in considerazione ai fini della riunione fittizia e non deve essere imputato alla quota di
legittima del disponente.[5] Secondo i sostenitori di questa tesi, ove così non fosse, la riunione
fittizia avrebbe a oggetto beni valutati in modo disomogeneo, in base a diversi criteri temporali: i beni trasferiti con il patto in funzione del
valore attribuito al momento della stipula, mentre gli altri beni, quelli trasferiti durante la vita del de cuius, con strumenti diversi e il relictum
dovrebbe essere valutato al momento dell’apertura della successione. La tesi trova sostegno nell’art. 564, comma 5, cod. civ., in forza del quale «ogni
cosa che, secondo le regole contenute nel capo II del titolo IV di questo libro, è esente da collazione è pure esente da imputazione». Si può così
ritenere, in base a questo principio, che l’esenzione da collazione, contenuta nell’art. 768-bis, comma 4, cod. civ., determini anche l’esenzione da
imputazione ex se. «Siccome l’imputazione delle liberalità in conto presuppone la riunione fittizia alla massa, ciò che è esente da imputazione è
escluso anche dalla riunione fittizia e, viceversa, ciò che è oggetto dell’una è incluso anche nell’altra». Ne consegue così l’inapplicabilità della
riunione fittizia. E stato però obiettato che l’esenzione dalla collazione, prevista dalla disciplina sul patto di famiglia, non si trova, come
prevede l’ultimo comma dell’art. 564 cod. civ., nel Capo II del Titolo IV del Libro II cod. civ., il quale non contiene alcun richiamo al nuovo Capo
V-bis, introdotto dalla legge 55/2006. Ne deriva che il bene produttivo, trasferito attraverso patto di famiglia, sarebbe oggetto di imputazione ex se
e di conseguenza di riunione fittizia, pur essendo escluso da collazione, in quanto, nel sistema delineato dalla legge 55/2006, sarebbe in vigore una
regola diversa da quella per cui all’esenzione da collazione si accompagna quella da imputazione ex se. Volendo confutare questa conclusione, non
varrebbe l’obiezione secondo la quale l’art. 768-quater., comma 3, cod. civ. prevede l’imputazione ex se esclusivamente con riguardo alle
attribuzioni fatte in favore degli ipotetici legittimari non assegnatari del bene produttivo. Il motivo per cui la legge non dispone tale effetto in
relazione all’azienda starebbe, infatti, nella possibilità che il beneficiario non assuma la qualifica di legittimario, pur dovendo essere un
discendente del disponente.[6]
L’istituto della riunione fittizia e quello dell’imputazione ex se hanno a oggetto, per espressa previsione di legge, i beni di cui il defunto abbia disposto in vita a titolo di donazione. L’adesione all’una o all’altra teoria riguardante l’applicazione dell’imputazione ex se e della riunione fittizia al bene produttivo trasferito con patto di famiglia sembra così fortemente correlata all’interpretazione che si dà alla natura stessa del patto di famiglia. Qualora si ritenga trattarsi di donazione modale, nella quale il donante-disponente trasferisce al donatario-beneficiario un bene, gravando costui dell’onere di corrispondere agli ipotetici legittimari la quota loro spettante, in base all’art. 768-quater, comma 1, cod. civ, [7] ne consegue che il trasferimento tramite patto di famiglia ne è esentato (art. 768-quater, comma 4, cod. civ); si pone come effetto tipico della donazione. Tuttavia, appare più persuasiva l’opinione secondo la quale il patto di famiglia non sia un negozio liberale; ne consegue quindi che l’oggetto del patto non deve essere riunito fittiziamente al patrimonio del disponente, in quanto l’art. 536 cod. civ. non può trovare applicazione, vista la natura non liberale del patto.[8]
Quali effetti sulle precedenti donazioni del disponente
Il patto di famiglia può avere effetti anche su precedenti donazioni fatte in vita. Non pare facile, in questo caso, trovare una soluzione condivisibile.[9]
Altri aspetti
Ma ci sono anche altri aspetti che hanno concorso al fallimento dei patti di famiglia.
Uno riguarda le imposte; la norma prevede l’esclusione da imposte per i trasferimenti attuati in seguito al patto di famiglia (per le partecipazioni, solo ove si passi il controllo) con l’obbligo di proseguire nell’attività per almeno 5 anni. Ma le questioni sorgono per i legittimari non assegnatari. Come trattarli fiscalmente? Inquadriamo i tre casi che possono verificarsi:
a. la liquidazione è a loro effettuata dal disponente;
b. la liquidazione è a loro effettuata dal beneficiario;
c. rinuncia a quanto loro spettante.
La norma non prevede nulla di specifico, per quanto riguarda il trattamento fiscale dei legittimari non assegnatari. Ci si dovrà quindi riferire ai principi generali, anche se le soluzioni che si possono proporre non trovano uniformità di vedute. Nel primo caso (liquidazione degli assegnatari non legittimari da parte del disponente), si applicano le imposte sulle successioni e donazioni, con l’applicazione delle imposte ipotecarie e catastali se del caso.
Nel secondo caso (liquidazione da parte del beneficiario), tenuto conto che non si tratta più di donazione, ma dell’adempimento di un modus, dovrebbe applicarsi l’imposta di registro con aliquota del 3%, trattandosi di «atti diversi da quelli indicati aventi a oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale». Nessuna franchigia quindi. Anche qui applicazione eventuale delle imposte ipotecarie e catastali. Per quanto concerne il terzo caso (rinuncia), l’imposta di registro è dovuta in misura fissa.
Infine, sempre per restare in ambito tributario, esaminiamo le problematiche relativamente all’eventuale scioglimento del patto. Sono state avanzate due ipotesi, ambedue valide. Qualora lo scioglimento del patto abbia effetto ex tunc e quindi sia “eliminato” con efficacia retroattiva, non ci sarebbe alcuna imposta; «il ritrasferimento non sarebbe oggetto dello scioglimento, ma conseguenza dello stesso».
Qualora invece si consideri lo scioglimento come ritrasferimento, si applicherà l’imposta sulle donazioni. E questa tesi è quella che pare prevalere al momento.
L’art. 28 del D.P.R. 131/1986 sottopone all’imposta la risoluzione del contratto e la stessa Agenzia delle Entrate, come la Cassazione, si è pronunciate per la tassazione dei trasferimenti per effetto di rimborso dei crediti per mutuo dissenso. [10]
Le prospettive di riforma
Le attuali norme sui patti di famiglia non facilitano i passaggi generazionali, questo è pacifico.
Ecco perché AIDAF (Associazione italiana delle aziende familiari), gruppi di pressione e qualche parlamentare si sono fatti portavoce di nuove norme, che potrebbero agevolare appunto il passaggio. Sintetizziamo queste proposte, senza esimerci dall’osservare come per lo più si tratti, in definitiva, di rendere possibile una maggiore disparità di trattamento tra i figli. Può darsi che ciò, in effetti, risponda a criteri sostanziali e validi, legati al moderno mondo dell’economia, ma resta il fatto che così aumenta la disparità di trattamento.
E ben vero che siamo di fronte a tanti fallimenti di passaggi generazionali, ma non per questo, a nostro avviso, regole meno tutelanti degli interessi di tutti gli eredi possono farne cambiare l’esito. Altre sono le motivazioni dei fallimenti dei passaggi di aziende, o comunque non solo i vincoli normativi, che peraltro rispondono a un criterio di equità che ci ha accompagnato per decenni. Il “decreto sviluppo” (2011) inizialmente prevedeva una possibilità di ripartire la quota di legittima tra i figli in quote non uguali tra loro, ma uguali solo per metà, restando quindi disponibile appunto metà della quota loro pertoccante, da assegnare però tra loro stessi.
Prevedeva anche che la compensazione ai legittimari non assegnatari fosse effettuata dal disponente e la possibilità di differimento del trasferimento dell’azienda anche dopo la stessa morte. All’ultimo momento tutto è stato espunto. Presumibilmente perché gli argomenti non erano stati oggetto di adeguato e doveroso - aggiungiamo noi — approfondimento.
Alla Camera dei deputati, infine, è stata presentata la proposta di legge 4463 datata 28 giugno 2011. [11] Tale proposta prevede l’intervento obbligatorio dei legittimari non assegnatari anche successivamente al contratto, non necessariamente alla costituzione dello stesso, e che la liquidazione può essere effettuata dal disponente.
Abbiamo poi la proposta di riforma del Notariato, che però non tocca la questione della quota di legittima. [12]
* Relazione dell’autore alla tavola rotonda del 3 maggio 2012 a Schio (VI), avente il titolo Il passaggio generazionale – L’imprenditore di fronte alla scelta tra i figli e il mercato, nell’ambito della manifestazione Festival Città Impresa di maggio 2012 promossa, tra gli altri, da Fondazione Giacomo Rumor — Centro Produttività Veneto, Demotech, Confartigianato, Apindustria, Confindustria e CNA di Vicenza.
[1] Dello stesso avviso G. Zanchi, Il patto di famiglia, Quaderno n. 2, Centro Studi De Poli, 2011.
[2] G. Zanchi, op cit.
[3] Nella comunicazione della Commissione Europea n. 98/C 93/02 è stato ricordato che, «in caso di donazione all’interno della famiglia, il problema è rappresentato dalla mancanza di un prezzo di mercato e dalle numerose stime da cui dipende la valutazione. D’altra parte la valutazione dell’impresa sarà comparata con quella di altri beni dati ai membri della famiglia come anticipi della successione. Perciò la valutazione dell’impresa dovrà soprattutto tenere conto dei rischi specifici e delle potenziali debolezze di un’impresa rispetto agli altri beni trasferiti, come gli immobili, il cui valore tende a essere meno volatile».
[4] Un caso pratico molto semplice, tratto da C. Cicala, “Patto di famiglia e riunione fittizia del bene produttivo”, in Fam., pers., succ, 2009, pag. 622, può agevolare la comprensione della problematica: padre vedovo con due figli trasferisce con patto di famiglia l’azienda che vale 30 a un figlio, il quale a sua volta liquida il fratello con 10; al decesso il patrimonio dictum è di 30, attribuito al fratello non assegnatario dell’azienda. L’autore si è chiesto: può il fratello assegnatario dell’azienda proporre azione di riduzione per lesione di legittima (nel caso 1/3 di 30 ex art. 537, comma 2, cod. civ.)? Il fratello che ha ereditato ben può eccepire che è necessario riunire quanto già trasferito con il patto di famiglia (azienda di 30, anche se si tratta di valore attribuito con un riferimento temporale diverso), per cui non c’è lesione di legittima (in realtà può effettuarsi il seguente conteggio: 30 — 10 + 30 = 50; quota di legittima 1/3, pari a 16,334; il fratello assegnatario ha percepito 30 — 10 = 20 e quindi non ci sarebbe lesione, rapportato a una quota di 16,334).
[5] Nell’esempio formulato in nota, evidente sarebbe il vantaggio per la posizione dell’assegnatario, il quale avrebbe così diritto a una porzione di legittima pari a 10, determinata sul valore del relictum, senza riunire fittiziamente quanto disposto con patto di famiglia
[6] Sotto questo profilo il patto di famiglia può essere accostato al testamento, che non è considerato un atto di liberalità, in quanto l’istituzione di erede può non solo non arrecare alcun vantaggio patrimoniale al chiamato, «ma risolversi addirittura in un grave pregiudizio per costui»: così U. Carnevali, “Donazione. Diritto civile”, in Enc. giur., Roma, 1989, XII, 1.
[7] C. Caccavale, op. cit, pag. 586; idem, ‘Appunti per uno studio sul patto di famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie”, in Notariato, 2006, pag. 304; Merlo, ‘Appunti sul patto di famiglia”, in Società, 2007, pag. 947.
[8] Nel caso più sopra illustrato l’assegnatario, pur avendo già ottenuto con il patto un beneficio netto pari a 20, valore dell’azienda detratta la somma corrisposta al fratello, potrebbe agire vittoriosamente in riduzione attraverso la disposizione testamentaria che lo esclude dalla successione del padre. Avrà, infatti, diritto a ottenere la propria quota di legittima, pari a 10, calcolata sul relictum di valore pari a 30, senza che si debba tenere conto di quanto già assegnatogli con il patto. Questa è la tesi espressa da Cicala: può sembrare spinta, ma è sostenuta da valide ragioni argomentative, anche se non equitative.
[9] Un’esemplificazione: imprenditore vedovo con due figli effettua in vita due donazioni a estranei alla sua famiglia; successivamente stipula il patto di famiglia con i suoi due figli, attribuendo l’azienda, che vale 21, a uno dei figli con l’obbligo di dare all’altro fratello 7, corrispondente alla quota di legittima. All’apertura della successione si rivalutano le due donazioni fatte in vita, imputabili a 10 e 9. In ipotesi che non vi siano altri beni né passività, si deve calcolare il patrimonio del de cuius ex art. 556 cod. civ. Questo il calcolo: patrimonio compressivo = 40 [(10 + 9) valutati oggi + (21 valutati al momento dell’atto)]; legittima = 40 : 3 = 13,33 (art. 537, comma 2, cod. civ.); quota attribuita all’assegnatario dell’azienda, al netto del pagamento al fratello = 14 (21 — 7); lesione di legittima per l’altro fratello = 6,67 (13,33 — 7). Il primo figlio è stato interamente soddisfatto, non così il secondo, il quale avrà come unica possibilità quella di agire nei confronti del beneficiario della seconda donazione, non perciò — si ritiene — contro il fratello. Potrà richiedere il reintegro fino al totale della quota di 14 (10 + 9 = 19; 19— 13,33 = 5,67), resterà insoddisfatto per 1 (6,67 — 5,67).
[10] L’Agenzia delle Entrate, con ris. n. 329/E del 14 novembre 2007, in riferimento a una fattispecie di risoluzione di contratto di donazione per mutuo dissenso, ha osservato che, ai fini delle imposte indirette, l’atto di risoluzione consensuale è da considerarsi un autonomo negozio dispositivo mediante il quale il bene oggetto di donazione viene trasferito a titolo gratuito al donante e che come tale deve essere sottoposto all’imposta sulle successioni e donazioni. Nello stesso senso la Suprema Corte ha stabilito che, «in tema di imposta di registro, il contratto con il quale viene convenuta la risoluzione del contratto di vendita con riserva di proprietà di un immobile, comportando la retrocessione del bene oggetto del contratto risolto (cosa che per la legge di registro si verifica anche nella ipotesi di vendita con riserva di proprietà, dato che tale normativa considera detta vendita immediatamente produttiva dell’effetto traslativo), deve essere assoggettato all’imposta proporzionale da applicarsi con l’aliquota prevista per i trasferimenti immobiliari» (Cass. 21 maggio 1998, n. 5075).
[11] Proposta di legge Marinello, Alfano e altri, Modifiche al codice civile n materia di disciplina del patto di famiglia.
[12] La riforma dei diritti riservati ai legittimari, 2011.