Rettifiche e correzioni alla valutazione del magazzino
Il Fisco, N. 27 - 4 luglio 2011
Conformemente al principio di continuità dei valori fiscalmente riconosciuti, la valutazione delle rimanenze comporta soltanto spostamenti di componenti reddituali da un periodo d’imposta ai successivi. Infatti, in base all’art. 92, comma 7, del Tuir, le rimanenze finali di un esercizio, nell’ammontare indicato dal contribuente, rappresentano le esistenze iniziali dell’esercizio successivo. Tale disposizione deve essere tuttavia integrata con quella recata dal successivo art. 110, comma 8, del Tuir, secondo cui l’Amministrazione finanziaria tiene conto direttamente degli effetti che le rettifiche apportate alle valutazioni fatte dal contribuente possono avere sugli imponibili dei periodi di imposta successivi. In particolare, laddove l’Ufficio dovesse rettificare in aumento le rimanenze di fine esercizio, la rettifica costituirebbe un maggior costo fiscalmente rilevante nell’esercizio successivo.
1. Premessa
Ai fini della determinazione del reddito d’impresa, come noto, occorre valorizzare i beni di magazzino ex art 85, comma 1, lettere a) e b) del Tuir (merci, prodotti finiti o in lavorazione, materie prime, eccetera) giacenti presso l’impresa, nonché i servizi in corso di esecuzione alla fine del periodo d’imposta, e stornare conseguentemente i relativi costi, in quanto non di competenza dell’esercizio che si sta chiudendo. Tale operazione di rettifica - certamente la più complessa e laboriosa fra tutte quelle richieste per la redazione del bilancio d’esercizio di un’impresa industriale o commerciale - avviene attraverso la rilevazione delle rimanenze finali, le quali, sotto il profilo contabile, altro non sono che complessi indistinti di costi sospesi, che a fine anno si rinviano al futuro esercizio. Infatti, come espressamente stabilito dall’art. 92, comma 7, del Tuir, le rimanenze finali di un esercizio, nell’ammontare indicato dal contribuente, costituiscono le esistenze iniziali (ossia componenti negativi di reddito) dell’esercizio successivo, cosicché la maggiore o minore valutazione del magazzino influenza non solo il risultato fiscale dell’esercizio nel quale le rimanenze sono rilevate, ma anche quello dell’esercizio successivo.
Insieme alla registrazione delle quote di ammortamento delle immobilizzazioni, quella delle rimanenze di magazzino costituisce la scrittura di assestamento che più incide sulla determinazione del risultato economico dell’impresa. Inoltre, essendo il risultato di un complesso processo di stima, le rimanenze possono prestarsi ad operazioni di arbitraggio fiscale laddove siano utilizzate dal contribuente come “strumento” per allocare costi secondo scelte di convenienza. Ad esempio, dando alle scorte di magazzino di fine anno un valore più basso di quello effettivo, si “gonfia” ad arte il costo del venduto, deprimendo in questo modo il reddito imponibile dell’esercizio. Oppure, in presenza di perdite fiscali in scadenza, il contribuente potrebbe “gonfiare” le rimanenze finali (posticipando così la deduzione del costo delle scorte) allo scopo di dilatare in modo artificioso il reddito imponibile dell’esercizio, in modo tale da assorbire le perdite fiscali altrimenti non più utilizzabili per decorso del termine previsto per il loro riporto. Non sorprende pertanto che, in occasione di verifiche analitiche in azienda, gli organi ispettivi della Guardia di finanzia e dell’Agenzia delle Entrate controllino con estrema attenzione la valutazione dei beni di magazzino effettuata dal contribuente.
In merito si segnala, per esempio, come non sia affatto infrequente che l’Amministrazione finanziaria disconosca le svalutazioni del magazzino operate dall’impresa e pretenda l’applicazione del criterio del costo per la valorizzazione delle merci in giacenza alla fine dell’esercizio, eccependo la mancanza o la insufficienza della prova documentale in ordine all’effettivo deprezzamento delle merci medesime. [1] In questa sede riteniamo perciò utile prendere in esame le implicazioni di un’eventuale rettifica, ai fini fiscali, del valore delle rimanenze sulla determinazione del reddito dei periodi d’imposta successivi a quello oggetto di accertamento.
Ci soffermeremo inoltre sulle modalità di correzione degli errori riguardanti la valutazione delle giacenze di magazzino, nonché sulle conseguenze, sotto il profilo fiscale, dei comportamenti contabili posti in essere dal contribuente per “regolarizzare” tali giacenze.
2. Effetti degli accertamenti fiscali sulle rimanenze di magazzino
2.1. Generalità
In forza del principio di continuità dei valori fiscali, mutuato dalla scienza contabile, le rimanenze d’esercizio rappresentano - come già sottolineato - sia un componente positivo sia un componente negativo di reddito, dal momento che il loro valore al termine del periodo d’imposta precedente costituisce anche il loro valore iniziale nel periodo d’imposta successivo. E da ricondurre a tale principio la disposizione, contenuta nel comma 8 dell’art. 110 del Tuir, che disciplina il trattamento degli effetti che la rettifica, da parte dell’Ufficio, delle valutazioni fatte dal contribuente può avere sul reddito dei periodi d’imposta successivi a quello oggetto di accertamento. La disposizione riguarda evidentemente le valutazioni di quelle voci del patrimonio d’impresa le cui vicende, sotto il profilo reddituale, interessano più esercizi. E questo il caso, appunto, delle rimanenze finali di magazzino, le cui valutazioni, come detto, esplicano effetti anche sull’esercizio successivo; ma è anche il caso - che in questa sede però non trattiamo - delle immobilizzazioni, il cui valore deve essere ripartito in più esercizi tramite la tecnica dell’ammortamento, trattandosi di beni che partecipano al processo produttivo per più periodi amministrativi.
In particolare, la suddetta norma dispone che “la rettifica da parte dell’ufficio delle valutazioni fatte dal contribuente in un esercizio ha effetto anche per gli esercizi successivi. L’ufficio tiene conto direttamente delle rettifiche operate e deve procedere a rettificare le valutazioni relative anche agli esercizi successivi”. Dunque, con specifico riferimento alle rettifiche in aumento operate dai funzionari accertatori sulle rimanenze finali di magazzino, la riportata disposizione normativa attribuisce al contribuente un vero e proprio diritto di vedersi riconosciuti in modo automatico gli effetti - in melius - di dette rettifiche, nel senso che l’Ufficio ha l’obbligo di modificare anche il valore delle corrispondenti esistenze iniziali dell’esercizio successivo a quello oggetto di rettifica; cosa che consente - come si dirà meglio più avanti - di evitare una duplicazione d’imposta.
Rettifiche (ai fini fiscali) delle valutazioni fatte dal contribuente
Principi stabiliti dall’art. 110, comma 8, Tuir |
• le rettifiche operate dall’Ufficio alle valutazioni fatte dal contribuente, in un esercizio, hanno effetto anche per gli esercizi successivi; • l’Ufficio ha quindi l’obbligo di considerare l’influenza delle predette rettifiche sulle valutazioni relative agli esercizi successivi, provvedendo al ricalcolo delle dichiarazioni dei redditi presentate dal contribuente. |
2.2. Excursus normativo
La disposizione recata dall’art. 110, comma 8, del Tuir corrisponde a quella di cui all’art. 76, comma 6, del vecchio Testo unico, così come modificata dall’art. 1, comma 1, del D.L. 29 giugno 1994, n. 416, conv. L. 8 agosto 1994, n. 503. Prima di tale modifica normativa, il citato comma 6 dell’art. 76 del vecchio Tuir, in linea di principio, negava l’idoneità delle rettifiche apportate dall’Amministrazione finanziaria alle valutazioni eseguite dal contribuente ad influenzare la determinazione del reddito dei periodi d’imposta successivi a quello oggetto di accertamento. Era infatti previsto che gli effetti delle rettifiche in questione potessero riverberarsi su tali esercizi soltanto nell’ipotesi in cui gli stessi fossero stati egualmente oggetto di rettifica, cosicché la continuità delle valutazioni veniva di fatto a dipendere dalle scelte discrezionali dell’Ufficio, il quale - come correttamente osservato in dottrina[2] - poteva “legittimamente” limitare la propria attività accertatrice ad alcuni periodi d’imposta sulla base di un mero calcolo di convenienza, determinando fenomeni di duplicazione d’imposta a danno del contribuente.
In sostanza, sotto la previgente normativa, diventava impossibile ottenere il riconoscimento dei maggiori valori di magazzino nell’esercizio successivo a quello interessato dall’accertamento, salvo il caso in cui l’Amministrazione finanziaria avesse proceduto ad una ulteriore verifica fiscale anche per il periodo d’imposta successivo, in mancanza della quale il contribuente veniva perciò a subire una doppia imposizione: una prima volta sul maggior valore attribuito dall’Ufficio alle rimanenze; una seconda volta in relazione all’impossibilità di considerare tale maggiore valore quale componente reddituale negativo nell’esercizio successivo a quello oggetto di accertamento.
Questa situazione di iniquità è stata, come detto, eliminata dalla L. n. 503/1994, la quale ha ripristinato la disciplina vigente anteriormente all’entrata in vigore del Testo unico di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, disciplina delineata dall’art. 75, comma 2, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597, in base al quale “se l’ufficio delle imposte ha rettificato le valutazioni fatte dal contribuente i valori rettificati valgono anche per il periodo d’imposta successivo”.
Excursus normativo
Art. 75, comma 2, del D.P.R. n. 597/1973 |
"Se l'ufficio delle imposte ha rettificato le valutazioni fatte dal contribuente i valori rettificati valgono anche per il periodo d'imposta successivo". |
Art. 76, comma 6, del vecchio Tuir (formulazione previgente alle modifiche apportate dalla L. n. 503/1994) |
"La rettifica da parte dell'ufficio delle imposte delle valutazioni fatte dal contribuente in un esercizio non ha effetto per gli esercizi successivi; tuttavia l'ufficio delle imposte deve tenerne conto in sede di rettifica delle valutazioni relative a tali esercizi". |
Art. 110, comma 8, del nuovo Tuir, nel quale è stato trasfuso il contenuto dell'art. 76, comma 6, del vecchio Tuir, come modificato dalla L. n. 503/1994 |
'La rettifica da parte dell'ufficio delle valutazioni fatte dal contribuente in un esercizio ha effetto anche per gli esercizi successivi. L'ufficio tiene conto direttamente delle rettifiche operate e deve procedere a rettificare le valutazioni relative anche agli esercizi successivi". |
2.3. Rapporto fra il comma 8 dell’art. 110 e il comma 7 dell’art. 92 del Tuir
Il principio - già contenuto nel richiamato art. 75, comma 2, del D.P.R. n. 597/1973 e successivamente reintrodotto dalla citata L. n. 503/1994 - secondo cui le rettifiche fiscali delle valutazioni influenzano il reddito degli esercizi successivi - trovava, prima dell’entrata in vigore del Testo unico del 1986, un’espressa esplicazione, in riferimento proprio alle rimanenze, nella disposizione recata dall’art. 62, comma 6, del citato D.P.R. n. 597, a mente del quale “le rimanenze di un periodo d’imposta, determinate a norma del presente articolo e tenuto anche conto delle rettifiche apportate dall’ufficio delle imposte, costituiscono le giacenze iniziali del periodo d’imposta successivo”. Al riguardo, va notato, come la locuzione “tenuto anche conto delle rettifiche apportate dall’ufficio delle imposte”, contenuta nella norma testé riportata, non sia stata riproposta nella formulazione dell’art. 59, comma 6, del Testo unico del 1986, e come, successivamente, detta locuzione non sia stata inserita, in tale ultima disposizione, neanche dalla L. n. 503/1994, cosicché il comma 7 dell’art. 92 del nuovo Tuir - nel quale è stato trasfuso il contenuto del citato comma 6 dell’art. 59 del vecchio Tuir - oggi dispone che “le rimanenze finali di un esercizio nell’ammontare indicato dal contribuente costituiscono le esistenze iniziali dell’esercizio successivo”. Tale circostanza, tuttavia, non può in alcun modo indurre a ritenere che eventuali rettifiche delle rimanenze finali di magazzino, compiute dall’Ufficio, non si riflettano sul valore delle corrispondenti esistenze iniziali dell’esercizio successivo e che, ai fini della quantificazione di queste ultime, si debba avere riguardo solo a quelle “dichiarate” dal contribuente; e ciò per un duplice ordine di ragioni.
In primo luogo, la norma in questione non deve essere letta in maniera isolata, ma congiuntamente con il disposto del richiamato art. 110, comma 8, del Tuir, il quale, come s’è visto, fa espresso obbligo all’Amministrazione finanziaria di tener “conto direttamente delle rettifiche operate” e di procedere conseguentemente “a rettificare le valutazioni relative anche agli esercizi successivi”. In secondo luogo, occorre osservare che il mancato riconoscimento dell’influenza delle rettifiche di valore delle rimanenze sulle valutazioni degli esercizi successivi sarebbe in palese contrasto con due principi cardine del nostro ordinamento tributario: il principio di continuità dei valori fiscali, in virtù del quale un maggior valore delle rimanenze finali non può non tradursi in maggiori costi, a titolo di esistenze iniziali, per l’esercizio successivo; il divieto di doppia imposizione sancito dall’art. 163 del Tuir, in base al quale “la stessa imposta non può essere applicata più volte in dipendenza dello stesso presupposto ...”. [3] Con particolare riguardo a tale ultimo principio, si evidenzia che, ove l’Amministrazione finanziaria rettificasse in aumento il valore delle rimanenze finali di magazzino senza tenere poi conto di detto maggior valore nella quantificazione delle esistenze iniziali dell’esercizio successivo, la doppia imposizione sarebbe evidente: il maggior reddito imponibile sarebbe infatti tassato una prima volta come maggior valore delle rimanenze (componente positivo di reddito) e una seconda volta per il mancato riconoscimento del maggior costo nell’esercizio successivo in cui avviene la vendita dei beni di magazzino, i cui ricavi possono ovviamente derivare anche dalle rimanenze dell’esercizio precedente.
2.4. Modalità di applicazione dell’art. 110, comma 8, del Tuir
Come sottolineato in precedenza, in forza della previsione recata dal ripetuto comma 8 dell’art. 110 del Tuir, la rettifica alle valutazioni del magazzino relative agli esercizi successivi a quello oggetto di accertamento costituisce, per gli Uffici fiscali, non già una mera facoltà discrezionale legata a scelte di convenienza, bensì un obbligo giuridico inderogabile.
In forza di tale principio, la rettifica operata ai fini fiscali ha effetto anche per gli esercizi successivi e l’Ufficio finanziario è obbligato a tenerne conto automaticamente, senza bisogno, cioè, di alcuna istanza in tal senso da parte del contribuente, [4] e a prescindere dal fatto che i periodi d’imposta successivi siano o meno oggetto di accertamento.
La norma, infatti, non comporta l’obbligo per l’Ufficio di sottoporre ad accertamento anche i periodi d’imposta successivi a quello cui si riferisce la rettifica delle rimanenze finali, ma impone di riliquidare, a favore del contribuente, i periodi d’imposta il cui reddito, seguendo la rettifica operata, avrebbe dovuto essere minore.
Sotto il profilo operativo, è opportuno richiamare alcune indicazioni interpretative fornite da Assonime nella circolare 10 novembre 1994, n. 139, secondo cui:
· il riconoscimento dell’influenza delle rettifiche di valore operate dall’Ufficio in un esercizio sulle valutazioni degli esercizi successivi è una vicenda di natura extracontabile, nel senso che essa attiene solamente alla rideterminazione degli imponibili fiscali di tali esercizi;
• il riconoscimento, per gli esercizi successivi, delle rettifiche di valore può esplicare effetto solo dal momento in cui l’accertamento che ha dato luogo alla rettifica acquisisce carattere di definitività, e nei limiti di tale definizione.
Il carattere definitivo dell’accertamento esplica pertanto un duplice effetto: da un lato permette all’Ufficio di esercitare, avverso il contribuente, la pretesa tributaria Connessa al maggior valore delle rimanenze finali accertato con riferimento al periodo d’imposta sottoposto a verifica; dall’altro fa scattare l’obbligo, in capo all’Ufficio medesimo, di provvedere alla rideterminazione del reddito e alla riliquidazione delle imposte relative agli esercizi successivi sui quali si riverberano gli effetti (positivi per il contribuente) della predetta rettifica fiscale.
Come sopra accennato, stando al dato letterale della disposizione in commento, è da ritenersi che non si renda necessaria alcuna attivazione da parte del contribuente per ottenere il riconoscimento, negli esercizi successivi a quello accertato, dei maggiori costi delle rimanenze fiscalmente determinati, essendo compito dell’Ufficio procedere al ricalcolo delle imposte e provvedere, ove ne sussistano i presupposti, ai conseguenti rimborsi.
È peraltro ovvio che nel caso, nemmeno poi tanto raro, di inerzia dell’Ufficio accertatore, spetterà al contribuente attivarsi per vedersi riconosciuti gli effetti delle rettifiche, intimando all’Amministrazione finanziaria di adempiere all’obbligo di rettificare le dichiarazioni degli anni successivi e richiedendo, quindi, il rimborso delle maggiori imposte versate all’Erario con riferimento a detti anni. [5] Tale richiesta di rimborso potrà essere presentata, naturalmente, soltanto dal momento in cui l’accertamento relativo al periodo d’imposta cui si riferisce la rettifica delle rimanenze sia divenuto definitivo (ad esempio, perché non impugnato o in quanto vi sia una sentenza passata in giudicato) - ed entro due anni da tale momento[6] - e potrà riguardare anche periodi d’imposta che al momento della predetta definizione non sono più accertabili per intervenuta decadenza dei termini. [7] In caso di diniego espresso dell’Ufficio a “riliquidare” gli esercizi successivi, il contribuente può ricorrere alla Commissione tributaria provinciale competente, entro sessanta giorni dalla notificazione del provvedimento di diniego; mentre con riguardo al caso, più verosimile, in cui si formi il silenzio-rifiuto, in quanto siano decorsi novanta giorni dalla richiesta di “riliquidazione” senza che sia pervenuta alcuna risposta dell’Ufficio, si è dell’avviso che il contribuente possa presentare ricorso ai giudici tributari entro il termine di prescrizione decennale.[8]
Infine, si evidenzia come l’intervento dell’Ufficio sia da ritenersi non necessario nell’ipotesi, peraltro poco probabile, in cui, al momento della definitività dell’accertamento avente per oggetto la rettifica delle rimanenze finali di un determinato periodo d’imposta, il contribuente non abbia ancora presentato la dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta successivo interessato indirettamente dagli effetti della rettifica. In siffatta circostanza sarà infatti il contribuente stesso a far valere, in dichiarazione, il suo diritto al riconoscimento del maggior valore delle rimanenze iniziali conseguente alla rettifica precedentemente operata dall’Ufficio.
Modalità di applicazione dell’art. 110, comma 8, del Tuir
Attivazione da parte dell’Ufficio accertatore |
La norma impone all’Ufficio l’obbligo di tenere conto direttamente, per i periodi d’imposta successivi, degli effetti legati alle rettifiche apportate alle valutazioni in sede di accertamento di un determinato periodo d’imposta, e ciò a prescindere da una specifica attività di accertamento per tali periodi successivi. Pertanto il contribuente non deve provvedere ad alcuna correzione delle dichiarazioni dei redditi dei periodi d’imposta interessati dai predetti effetti. |
Inerzia dell’Ufficio accertatore |
Se l’Ufficio non provvede a ribaltare sugli esercizi successivi le rettifiche di valore delle rimanenze, per esercitare il diritto riconosciutogli dalla norma in argomento, il contribuente non ha altra possibilità che quella di presentare istanza di riliquidazione e rimborso delle imposte. |
Adempimenti contabili |
Il riconoscimento dell’influenza delle rettifiche di valore operate dall’Ufficio sulle valutazioni degli esercizi successivi è una vicenda extracontabile che esplica effetti soltanto sull’obbligazione tributaria. |
Momento di riconoscimento delle rettifiche |
Il diritto del contribuente al riconoscimento delle rettifiche di valore per gli esercizi successivi sorge solo nel momento in cui l’accertamento che ha dato luogo alla rettifica acquisisce carattere di definitività, ed entro i limiti di tale definizione. |
3. Correzione degli errori riguardanti le rimanenze di magazzino
3.1. Profili civilistici
Occorre premettere che le norme civilistiche in materia di bilancio non disciplinano espressamente il trattamento contabile da adottare qualora, nel corso dell’esercizio, siano rinvenuti errori contabili commessi nella redazione del bilancio di uno o più esercizi precedenti. Il vuoto normativo sul punto non autorizza peraltro a ritenere che la correzione delle irregolarità commesse nella valutazione delle poste patrimoniali non sia possibile; al contrario, come affermato nel Principio contabile nazionale n. 29, gli errori di contabilizzazione - da non confondere con i cambiamenti di stima o di principi contabili -devono sempre trovare tempestiva correzione nell’esercizio in cui sono individuati, in quanto l’imprenditore ha il dovere di ricondurre a verità le risultanze delle proprie scritture contabili. Al riguardo, il richiamato Principio contabile n. 29 precisa altresì che:
• per errore contabile deve intendersi l’impropria o mancata applicazione di un principio contabile a causa di errori nei calcoli, di erronee interpretazioni di fatti, di negligenza nel raccogliere tutte le informazioni e i dati disponibili per un corretto trattamento contabile;
• sulla base dell’effetto prodotto sul bilancio, gli errori possono essere classificati in errori non determinanti ed errori determinanti (sul piano quantitativo e/o qualitativo), intendendosi per quest’ultimi quelli aventi un effetto così rilevante sui bilanci sui quali sono stati commessi che i bilanci medesimi non possono più considerarsi attendibili.
Quanto poi alle modalità di correzione degli errori, il documento in parola evidenzia come in forza del principio di continuità dei bilanci - in base al quale i valori indicati nel bilancio di apertura di un esercizio devono necessariamente corrispondere a quelli di chiusura dell’esercizio precedente - in nessun caso un errore può essere eliminato mediante la diretta correzione del valore di apertura dell’elemento patrimoniale interessato dall’errore stesso, dovendosi, invece, imputare la correzione al Conto economico dell’esercizio in cui l’errore contabile viene scoperto.
In sostanza, sotto il profilo pratico, si deve procedere alla rettifica della posta patrimoniale che a suo tempo fu interessata dall’errore, con contestuale rilevazione a Conto economico di una sopravvenienza attiva o passiva, da iscrivere fra i proventi e oneri straordinari, rispettivamente, alle voci E.20 ed E.21 dello schema di Conto economico.
Ciò è fra l’altro confermato anche dal Principio contabile n. 12, in cui è specificato che fra le voci contenute nell’aggregato E del Conto economico vanno inseriti gli “errori di rilevazione di fatti di gestione o di valutazione delle poste di bilancio relativi ad esercizi precedenti”. Inoltre, nell’ipotesi in cui l’errore sia determinante, nella Nota integrativa se ne dovrà dare adeguata informativa.
Non è invece mai corretto, secondo i citati principi contabili nazionali, appostare la correzione dell’errore - sia esso determinante o non determinante - come una rettifica delle riserve di patrimonio netto, mentre laddove l’errore determinante fosse così grave da provocare l’annullamento del bilancio d’esercizio in cui è stato commesso, per violazione delle disposizioni ex art. 2423 del codice civile, la correzione dovrebbe necessariamente avvenire attraverso il rifacimento del detto bilancio, nonché, per il summenzionato principio di continuità dei bilanci, di quelli successivi sui quali l’errore iniziale produca i suoi effetti.
Ciò posto, con specifico riguardo alla correzione degli errori commessi in tema di valutazione delle rimanenze di magazzino, occorre osservare come a fine esercizio, in sede di scritture di assestamento, possa accadere che le scorte siano contabilizzate per un importo inferiore oppure superiore a quello effettivo. Nel primo caso sarà necessario iscrivere, fra le esistenze iniziali dell’esercizio successivo, le quantità precedentemente omesse ovvero correggere in aumento i valori unitari precedentemente sottostimati. Ad esempio, ipotizzando la rilevazione di merci precedentemente omesse per un valore di euro 20.000, la scrittura contabile sarà la seguente:
Merci |
a |
Sopravvenienze attive |
20.000 |
Nel secondo caso (sopravvalutazione del magazzino) si dovrà, invece, procedere all’eliminazione, dalle esistenze iniziali, delle quantità risultanti dalla contabilità superiori a quelle effettivamente riscontrate mediante la conta fisica delle scorte, ovvero alla riduzione dei costi unitari di valutazione in quanto superiori a quelli effettivi. Ipotizzando, ad esempio, una “eliminazione contabile” di merci per un valore di euro 10.000, la scrittura contabile relativa alla correzione sarà la seguente:
Sopravvenienza passiva |
a |
Merci |
10.000 |
Inoltre, come sopra ricordato, laddove la valutazione in difetto o in eccesso delle scorte di magazzino rientri nella definizione di errore determinante fornita dal citato Principio contabile n. 29, in Nota integrativa occorrerà descrivere la natura dell’errore commesso ed evidenziare l’ammontare della correzione. Infine, se l’errore di valutazione delle scorte ha falsato in modo così rilevante la veritiera e corretta rappresentazione della situazione patrimoniale ed economica dell’impresa da rendere nulla o annullabile la delibera assembleare che ha approvato il bilancio, la correzione dell’errore deve avvenire attraverso il rifacimento del bilancio e la relativa riapprovazione da parte dell’assemblea dei soci.
3.2. Profili fiscali
Il trattamento fiscale applicabile ai proventi e oneri straordinari (sopravvenienze attive e passive) che emergono dalle rettifiche di errori, volontari e non, commessi in precedenti periodi d’imposta non risulta espressamente disciplinato dalla normativa tributaria.
Preso atto di tale mancanza, con specifico riguardo alla “regolarizzazione” del magazzino si pone, pertanto, il delicato problema di stabilire se, ai fini dell’imposizione diretta, assumano rilevanza le sopravvenienze attive o passive derivanti dalla correzione degli errori commessi, in esercizi precedenti, nella valutazione dei beni in rimanenza.
La questione, a nostro giudizio, deve essere risolta alla luce del principio generale di competenza sancito dall’art. 109, comma 1, del Tuir, in base al quale, ai fini della determinazione del reddito d’impresa, non è consentito dedurre un costo o tassare un ricavo in un esercizio diverso da quello di competenza economica, fatte salve alcune eccezioni normativamente previste. Tale criterio di imputazione temporale dei componenti di reddito, da una parte, risponde all’esigenza di dare certezza al rapporto tributario, dall’altra è volto ad impedire che il contribuente, godendo di un margine di elasticità, possa spostare gli elementi reddituali da un periodo d’imposta all’altro, a seconda di quella che è la propria convenienza. [9]
Diretto corollario di tale principio è che le rettifiche contabili non assumono rilevanza fiscale nell’esercizio in cui vengono effettuate e che gli organi di controllo sono legittimati a procedere alla rettifica del reddito imponibile del periodo d’imposta in cui è stato commesso l’errore dal quale sia derivato un minor reddito sottoposto ad imposizione.
L’applicazione del basilare principio di competenza implica, quindi, che le sopravvenienze che emergono dalla correzione di errori commessi in precedenti esercizi nella valutazione delle scorte devono considerarsi indeducibili, se passive, o non tassabili, se attive. In tale ultima circostanza è peraltro evidente che, come sopra accennato, l’Amministrazione finanziaria potrà accertare un maggior reddito imponibile con riferimento al periodo d’imposta nel quale le maggiori rimanenze avrebbero dovuto concorrere a formare il reddito. In altre parole, l’Ufficio può rilevare l’errore e censurare il difetto di competenza con riferimento al periodo d’imposta viziato dall’errore stesso, ciò indipendentemente dalle eventuali correzioni ex post operate nei bilanci successivi. Il contribuente, dunque, non si mette al riparo da possibili contestazioni del Fisco tassando la sopravvenienza attiva che emerge dalla rilevazione delle rimanenze precedentemente omesse, perché, se ciò fosse possibile, significherebbe “sconvolgere” il menzionato principio della competenza, principiò che deve essere osservato tanto dal contribuente, quanto dall’Amministrazione finanziaria nell’espletamento dell’attività di accertamento.
Il mancato concorso della variazione delle rimanenze alla formazione del reddito imponibile rimane perciò sanzionabile con riferimento al periodo d’imposta in cui le rimanenze omesse avrebbero dovuto essere contabilizzate. La sottovalutazione delle giacenze di magazzino comporta, infatti, la dichiarazione di un reddito imponibile inferiore a quello effettivo, cosa che integra gli estremi della violazione di infedele dichiarazione, che il contribuente può sanare spontaneamente, secondo le norme sul ravvedimento ex art. 13 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, presentando una dichiarazione integrativa di quella originaria e provvedendo a versare la maggiore imposta dovuta, la sanzione ridotta e gli interessi moratori calcolati al tasso legale con maturazione giorno per giorno.[10]
Nell’ipotesi, invece, di sopravalutazione delle rimanenze, non essendo possibile - per le ragioni sopra esposte - dedurre la sopravvenienza passiva che deriva dalla correzione dell’errore, per recuperare la deduzione del costo non effettuata nell’esercizio di competenza il contribuente dovrà: (i) presentare una dichiarazione integrativa a proprio favore, per il periodo d’imposta in relazione al quale è stata compiuta la valutazione in eccesso delle scorte, ai sensi dell’art. 2, comma %-bis, del D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322;[11] oppure (ii) presentare istanza di rimborso della maggiore imposta indebitamente versata con riferimento al predetto periodo d’imposta, entro il termine di 48 mesi dalla data del versamento, ai sensi di quanto previsto dall’art. 38 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602.[12]
Correzione di errori riguardanti la valutazione delle rimanenze di magazzino
Magazzino sovrastimato |
È possibile eliminare dalle esistenze iniziali quantità fisiche superiori a quelle effettivamente esistenti in magazzino ovvero ridurre i costi unitari di valutazione. . La sopravvenienza passiva che emerge da tale operazione non è deducibile dal reddito d’impresa, in ossequio al principio di competenza. Detta sopravvenienza va indicata, pertanto, fra le variazioni in aumento del reddito d’esercizio in sede di dichiarazione dei redditi. |
Magazzino sottostimato |
È possibile iscrivere in bilancio quantità precedentemente omesse ovvero valori precedentemente sottostimati per errata quantificazione del costo delle rimanenze. Non è tassabile la sopravvenienza attiva che deriva da tale operazione, ferma restando la possibilità per il Fisco di accertare il maggior reddito, ma con riferimento al periodo d’imposta in cui è stato commesso l’errore di valutazione. |
4. Sintesi conclusiva
Si è sopra evidenziato che le rimanenze finali di magazzino rappresentano la voce di bilancio che più delle altre viene utilizzata per “manovrare” il reddito d’impresa. Specie quando non vi è l’obbligo di tenere la contabilità di magazzino e i beni giacenti presso l’impresa, al termine dell’esercizio, sono rilevati attraverso inventari fisici redatti “a piacere” dall’imprenditore, non è particolarmente difficile per quest’ultimo alterare il valore delle rimanenze, gonfiare il costo del venduto e deprimere, per questa via, il reddito imponibile dell’esercizio.
Qualora, in sede di controllo, gli organi verificatori dovessero accertare il maggior valore delle rimanenze di fine esercizio, rispetto a quello contabilizzato dal contribuente, per evitare distorsioni nell’applicazione delle imposte sul reddito, tale maggior valore, in forza del principio di continuità dei valori fiscali (da applicarsi anche quando vada a svantaggio dell’Amministrazione finanziaria) diventerà il nuovo valore fiscale delle esistenze iniziali dell’esercizio successivo, senza che l’Ufficio possa opporne la mancata iscrizione in bilancio.
Non può neanche escludersi, peraltro, l’ipotesi che la sottovalutazione del magazzino sia il frutto, non già di una “manovra” sul reddito, bensì di un errore nella conta fisica delle scorte o nella determinazione dei prezzi unitari utilizzati per la valutazione.
In tal caso, seguendo i corretti principi contabili, l’errore deve essere corretto nell’esercizio in cui esso viene individuato, rettificando in aumento le esistenze iniziali e rilevando, in contropartita a Conto economico, una sopravvenienza attiva da iscrivere alla voce E.20.
Tale sopravvenienza, tuttavia, non concorre a formare il reddito imponibile dell’esercizio in cui è rilevata. Abbiamo infatti precisato che, in forza della inderogabilità del criterio della competenza, l’impresa non può sanare, dal punto di vista fiscale, la sottovalutazione delle rimanenze finali di magazzino relative ad un determinato periodo d’imposta, tassando, nella dichiarazione dei redditi del periodo d’imposta successivo, il provento straordinario che deriva dalla “regolarizzazione” contabile del magazzino; l’impresa dovrà invece procedere all’integrazione della dichiarazione del periodo d’imposta per il quale è stata commessa la violazione (rimanenze omesse), secondo le disposizioni sul ravvedimento operoso di cui all’art. 13 del D.Lgs. n. 472/1997.
[1] Parte della giurisprudenza di merito ritiene che, qualora, in sede di verifica, l’Amministrazione finanziaria contesti la determinazione del valore normale utilizzato dal contribuente per valorizzare gli stocks di fine anno, spetti al contribuente medesimo dimostrare l’effettivo minor valore di mercato delle merci in giacenza rispetto al costo. In tal senso, dr., ad esempio, Comm. trib. prov. di Milano, Sez. XXXTV, 11 novembre 1996, n. 111, in banca dati “fisconline”.
[2] Cfr. F. Rossi Ragazzi, Rettifiche delle valutazioni da parte dell’Ufficio: effetti sugli esercizi, successivi, in “Corriere Tributario” n. 15/1995, pag. 1051.
[3] Sul punto cfr. D. Lamanna Di Salvo, Aspetti contabili e fiscali della valutazione delle rimanenze, Editrice UNI Service, 2004, pagg. 80-81.
[4] In tal senso, fra gli altri, G. Vasapolli-A. Vasapolli, Dal bilancio d’esercizio al reddito d’impresa, Ipsoa, 2006, pag. 956.
[5] Cfr., sul punto, Istanza di rimborso se l’Ufficio non rettifica, in “Il Sole-24 Ore, L’Esperto Risponde” del 18 settembre 2006.
[6] Si veda l’art. 21, comma 2, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546.
[7] In questo senso Assonime nella citata circolare n. 139/1994.
[8] Sul ricorso contro il rifiuto tacito si veda la circ. min. 23 aprile 1996, n. 98/E, in banca dati ”fisconline”.
[9] L’inderogabilità del principio di competenza nella determinazione del reddito d’impresa è stata più volte affermata anche dalla Corte di Cassazione. Si vedano, ad esempio, le sentenze 13 maggio 2009, n. 10981 e 10 marzo 2008, n. 6331, entrambe consultabili in banca dati “ fisconline”.
[10] Si ricorda che la dichiarazione integrativa per ravvedimento può essere presentata entro il termine perentorio previsto per la presentazione della dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta nel corso del quale è stata commessa la violazione di infedele dichiarazione.
[11] Tale disposizione, come noto, stabilisce che le dichiarazioni dei redditi, dell’Irap e dei sostituti d’imposta possono essere integrate dai contribuenti per correggere errori od omissioni che abbiano determinato l’indicazione di un maggior reddito o, comunque, di un maggior debito d’imposta o di un minor credito, mediante dichiarazione da presentare non oltre il termine prescritto per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo.
[12] Detta norma prevede che il soggetto che ha effettuato il versamento diretto può presentare istanza di rimborso, entro il termine di quarantotto mesi dalla data del versamento stesso, nel caso di errore materiale, duplicazione ed inesistenza totale o parziale dell’obbligo di versamento.