Iva addebitata in fattura dai professionisti nel fallimento
di Giuseppe Rebecca
Il Fisco, N. 22 - 1 giugno 2009
L’Iva sulla fattura, emessa da un professionista in seguito ad un riparto fallimentare è da considerarsi un credito in chirografo, anche se la prestazione è in privilegio. Così sostiene, in modo uniforme, la consolidata giurisprudenza delia Cassazione. È evidente l’errore. Si tratta, invece, di un’lva che non va richiesta in sede di ammissione allo stato passivo, ma solo successivamente, al momento del pagamento. Qualora il fallimento non la pagasse (come di solito o, meglio, sempre accade) si tratterebbe (per la procedura) di un arricchimento. L’Amministrazione finanziaria ha aperto uno spiraglio, Io scorso anno, e così si riduce il danno.
Ma, nonostante la presa di posizione della Cassazione, si confida in un revirement che finalmente risolva alla radice la situazione, in ogni caso ci sono interessanti sviluppi dottrinari.
1. Premessa
Il professionista emette la fattura normalmente al momento dell’incasso. Antecedentemente emette un documento denominato “fattura pro-forma”; lo stesso iter, peraltro, è consentito per tutte le prestazioni di servizi.
In questo articolo esamineremo come trattare l’Iva relativa alle predette prestazioni in caso di fallimento del debitore. Queste le opzioni che si propongono: richiedere quest’Iva in chirografo, in privilegio oppure in prededuzione o, infine, in prededuzione condizionata. Pare argomento di poco conto, ma, in realtà, si tratta di migliaia di casi, e una dimostrazione dell’importanza ce la dà proprio la stessa Cassazione, chiamata moltissime volte su questo punto. E la Cassazione è intervenuta sempre in modo univoco, e, a nostro parere, errato: per la Cassazione questa Iva è da considerare in chirografo.
Nessun privilegio, ma nemmeno nessuna prededuzione. Semplicemente ammissione in chirografo. Nonostante le numerose sentenze univoche, siamo dell’avviso che la parola fine non sia ancora stata pronunciata, e che, prima o poi, la Cassazione si potrà ravvedere. Cerchiamo qui di confutare questa consolidata tesi, auspicando che alla fine venga accolta dalla magistratura, eliminando alla radice un orientamento che crea vantaggi alla massa dei creditori a tutto danno del creditore singolo professionista che deve emettere la fattura al fallimento.
2. Il comportamento dai più seguito
Probabilmente la Cassazione è stata indotta in errore dagli stessi professionisti creditori, che, da parte loro, continuano a presentare domande di ammissione chiedendo quest’Iva in privilegio o in prededuzione condizionata al successivo pagamento da parte del fallimento. Ma quest’Iva non è da chiedere in sede di ammissione allo stato passivo, evitando così al curatore il problema di doverla classificare (chirografa o privilegiata o prededuzione). È, infatti, del tutto indiscutibile che si tratti di un credito che sorge nel corso della procedura stessa. Ne consegue che quest’Iva dovrà essere pagata in via prededucibile. E, qualora la procedura non la pagasse, lo stesso professionista dovrà agire nei confronti della procedura, ma con un’azione a parte.
Nessuna ammissione al passivo, né tantomeno alcuna richiesta, può essere allora avanzata a tale titolo nei confronti della massa; e questo è proprio l’errore in cui sono incorsi i professionisti e, forse conseguentemente, la stessa Cassazione.
3. Le sentenze della Cassazione
La tesi seguita dalla Cassazione contrasta indiscutibilmente con il meccanismo applicativo dell’imposta, creando un arricchimento per la procedura (la quale si trova così a detrarre Iva non pagata), arricchimento non giustificabile.
La Cassazione ha, comunque, sempre negato sia il privilegio che la prededuzione[1] ed anche l’arricchimento.
Su questo specifico punto, tra tutte, Sez. I, 26 maggio 1997, n. 4648: “il professionista, al quale nel piano di riparto parziale sia stata assegnata per prestazioni professionali una somma non comprensiva del credito per rivalsa IVA, potendo proporre reclamo al tribunale fallimentare ex art. 26 L.F. avverso il decreto con il quale il giudice delegato ha reso esecutivo il piano di riparto, non può proporre domanda di accertamento e declaratoria di arricchimento senza causa della curatela fallimentare per la somma corrispondente all’importo della rivalsa IVA”.
Si tratta, a nostro avviso, di un’Iva prededucibile, come abbiamo detto; la prededucibilità non può però essere richiesta, per la prima volta, in sede di opposizione ad esclusione dallo stato passivo del fallimento.
La Cassazione è anche intervenuta[2] per rigettare un reclamo di un professionista ad un piano di riparto che prevedeva solo il pagamento del credito del professionista ammesso in privilegio, e non dell’Iva, peraltro ammessa in chirografo. La Corte ha respinto il reclamo non essendosi a suo tempo opposto all’approvazione dello stato passivo.
Riportiamo la massima di questa ultima sentenza: “il credito di rivalsa IVA di un professionista che, eseguite prestazioni a favore di imprenditore poi dichiarato fallito, emetta la fattura per il relativo compenso in costanza di fallimento (nella specie, a seguito del pagamento ricevuto in esecuzione di un riparto parziale), non è qualificabile come credito di massa, da soddisfare in prededuzione ai sensi dell’art. 111, primo comma, L.F. (applicabile nel testo “ratione temporis”), in quanto la disposizione dell’art. 6 del D.P.R. n. 633 del 1972, secondo cui le prestazioni di servizi si considerano effettuate all’atto del pagamento del corrispettivo, non pone una regola generale rilevante in ogni campo del diritto, cosicché, in particolare, dal punto di vista civilistico la prestazione professionale conclusasi prima della dichiarazione di fallimento resta l’evento generatore del credito di rivalsa IVA, autonomo rispetto al credito perla prestazione, ma ad esso soggettivamente e funzionalmente connesso. Il medesimo credito di rivalsa può giovarsi del solo privilegio speciale di cui all’art. 2758, secondo comma, cod. civ., nel testo di cui all’art. 5 della legge n. 426 del 1975, nel caso in cui sussistano beni - che il creditore ha l’onere di indicare in sede di domanda di ammissione al passivo - su cui esercitare la causa di prelazione. Nel caso, poi, in cui detto credito non trovi utile collocazione in sede di riparto, non è configurabile una fattispecie di indebito arricchimento, ai sensi dell’art. 2041 cod. civ., in relazione al vantaggio conseguibile dal fallimento mediante la detrazione dell’IVA di cui alla fattura, poiché tale situazione è conseguenza del sistema normativo concorsuale” (il corsivo è nostro). Commentiamo brevemente questa sentenza.
È pacifico, nella fattispecie esanimata, che la prestazione sia stata svolta ante fallimento.
È altrettanto pacifico che è errato il secondo assunto, e cioè che l’evento generatore del credito Iva sia sorto ante fallimento. Ciò contrasta evidentemente con la struttura stessa del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633. Il credito Iva è sorto solo al momento della fatturazione, e quindi è pacifico che è sorto durante la procedura.
È di tutta evidenza che la Cassazione non ha dato una soluzione logica alla fattispecie.
Ma uno spiraglio per l’ammissione della prededucibilità pare venire proprio da una risalente sentenza della Cassazione, la n. 12207 del 13 novembre 1992. Il professionista aveva chiesto l’Iva su fattura da ammettere in privilegio. La Corte ha sentenziato che “La tesi della prededucibilità ... presuppone che il credito IVA, in caso di riserva del professionista di fatturazione solo in fase di pagamento, emerga e sussista (oltre che essere quantificato) solo al momento del riparto. Chiedendo l’ammissione in privilegio, in principalità generale come sopra spiegato, ed in subordine come speciale ...il creditore ammetteva, per contro, che il credito era sussistente (ancorché condizionato) al momento della verificazione dei crediti, il che portava ad escludere che fosse stato dedotto il presupposto stesso della prededucibilità”.
Il professionista avrebbe, quindi, dovuto escludere il credito de quo nella sua domanda di insinuazione al passivo fallimentare, richiedendolo (in prededuzione) solo al momento in cui insorgeva l’obbligo della fatturazione, cioè all’atto del pagamento delle competenze (in esecuzione del piano di riparto) da parte del curatore.
4. Le sentenze di merito
Al contrario di quanto sostenuto dalla Cassazione, circa la tesi della prededucibilità, tesi che non penalizzerebbe i professionisti, si erano invece pronunciati più giudici di merito: trib. di Como, sent. n. 299 del 14 marzo 1991; trib. di Firenze, decr. 20 dicembre 1995, in “Il Foro Toscano”, n. 1/1996, pag. 55 e trib. di Pisa, sent. n. 121 del 12 febbraio 1999.[3]
Si segnala anche l’interessante decreto del Giudice delegato del trib. di Roma del 3 maggio 1999:[4] “poiché l’obbligo della fatturazione sorge a carico del professionista non al momento dell’ammissione al passivo del credito per prestazioni professionali, bensì al momento del riparto dell’attivo in suo favore, il credito di rivalsa per Iva, alla medesima stregua degli altri obblighi di legge insorti nel corso della gestione fallimentare, ha natura prededucibile”. Il decreto ha tratto origine da una istanza del curatore avente per oggetto le “direttive relative alla collocazione del credito per rivalsa Iva nello stato passivo e nei riparti”. È auspicabile che molti curatori ne seguano l’esempio, e chiedano formalmente al proprio Giudice delegato istruzioni in materia. Qualcosa si smuoverebbe di sicuro.
Ha fatto seguito la comunicazione del trib. di Genova del 7 novembre 2001; il Presidente della Sezione fallimentare ha così motivato: “rendo noto che la sezione fallimentare di questo Tribunale ha deciso di assumere un diverso orientamento sul credito in oggetto. Quest’ultimo deve, invero, considerarsi credito di massa e non già concorsuale (come ritenuto in precedenza). Infatti occorre sottolineare:
a) che il momento (convenzionale ai soli fini fiscali) in cui si perfeziona il presupposto impositivo si verifica, ai sensi dell’art. 6 D.P.R. 26/10/72 n. 633, con il pagamento del corrispettivo;
b) che il professionista esercita, al momento del pagamento, la rivalsa per IVA ex art. 18 D.P.R. 72 n. 633 (rivalsa obbligatoria stante la nullità di ogni patto contrario);
c) che il versamento dell’IVA per i soggetti passivi di tale imposta (tra i quali rientra ex art. 74 bis D.P.R. 72 n. 633 il fallimento) non è il soddisfacimento di un debito ma una mera partita di giro poiché il meccanismo dell’imposta de qua determina tra i titolari di partita IVA ‘entrate per partite di giro ed uscite per partite di giro corrispondenti ad entrate accertate e riscosse per conto terzi ed uscite impegnate e pagate per conto di terzi’.
Conseguentemente il versamento dell’IVA da parte del fallimento (accreditando l’importo nelle relative scritture) al professionista che poi la verserà a sua volta all’Erario è un’attività il cui presupposto (previsto dalla normativa fiscale speciale) nasce a seguito di un atto della procedura, vale a dire il pagamento in sede dì riparto al professionista, e non rappresenta un debito per quest’ultima bensì una partita di giro, stante il principio della neutralità di tale imposta per i soggetti passivi.
Pertanto il credito de quo (ancora inesistente e per di più incalcolabile non essendo nota l’entità del riparto) non deve essere oggetto di domanda in sede di verifica del passivo fallimentare. Per quanto invece attiene al contributo per la cassa di previdenza non sussistono le medesime ragioni descritte in relazione al credito per rivalsa IVA. In particolare non ricorre il fenomeno dell’attribuzione alla massa fallimentare di un credito per rivalsa caratterizzato dalla neutralità dell’onere e della sua necessaria gestione da parte degli organi della procedura. Il contributo in esame costituisce in effetti. un credito che, alla stregua di quello relativo alle prestazioni professionali, concorre a formare la base imponibile per la determinazione dell’IVA. Ad esso, pertanto, non può essere riconosciuta la prededucibilità rimanendo estraneo all’amministrazione del fallimento”.
In dottrina, ricordiamo la presa di posizione dell’Associazione dei Dottori Commercialisti con la norma di comportamento n. 91 ancora del novembre 1986, per la tesi della prededucibilità.
5. Una possibile diversa soluzione
Il professionista potrebbe fare anche qualcosa di diverso, rispetto a quanto qui riportato.
Abbiamo già segnalato come sia errato chiedere l’Iva in sede di ammissione allo stato passivo, così come, invece, abitualmente si fa; se si reputa che si tratti di un importo dovuto in via di prededuzione, il relativo credito nasce nello stesso momento del pagamento ed è solo allora che sorge.
Debitore diviene la procedura fallimentare, ed è verso il fallimento che bisognerà agire. Ne consegue che non si dovrà chiedere questa Iva in sede di ammissione al passivo; la si chiederà al fallimento, quando si emetterà la fattura per quanto incassato con il riparto. Il fallimento detrae l’Iva relativa alla fattura ricevuta, e quindi recupererà, prima o poi, questa Iva dall’Erario. Ne terrà, infatti, conto nella liquidazione che effettuerà; sarebbe Iva perduta solo nel caso in cui la procedura non avesse più alcuna operazione attiva da assoggettare ad Iva, e magari alla fine abbandonasse il credito Iva, piuttosto che cederlo a terzi o ad uno o più creditori. Inoltre, da quando il fallimento è sostituto di imposta, ulteriore occasione per recuperare il credito Iva è la compensazione delle ritenute d’acconto dovute proprio su fatture pagate ai professionisti.
Ove la procedura dovesse, comunque, insistere per non effettuare il pagamento, il professionista potrebbe legittimamente agire giudizialmente per ottenere l’incasso dell’Iva che è dovuta proprio in quel momento, cioè nel momento della emissione della fattura.
Forse per questa strada ci potrebbe essere qualche speranza di vittoria; non risultano, comunque, precedenti in materia.
Di fronte a un’interpretazione così univoca della Cassazione, non c’è altra via, almeno fino a quando la Cassazione stessa non cambierà atteggiamento.
6. L’alternativa
Esiste, comunque, una alternativa che consente in ogni caso di limitare il danno al professionista che, emettendo la fattura, si troverebbe inciso di un 20% secco di Iva.
La Cassazione ha sempre giustificato il suo atteggiamento, a nostro avviso errato, sostenendo che il professionista si trova alla pari di qualsiasi altro creditore e che, quindi, incassa l’eventuale Iva in chirografo.
Ma questo non è esatto: chi ha già emesso la fattura, e ben potrebbe essere anche un professionista, l’ha emessa nei confronti dell’impresa allora in bonis, che ha detratto l’Iva. Il fallimento è intervenuto solo successivamente ; la fattura nel nostro caso è, invece, emessa ora, proprio nei confronti della procedura fallimentare, che registra quest’Iva a credito, dopo l’avvio della procedura stessa.
È evidente che la situazione non sia certamente la stessa.
Spieghiamo ora l’alternativa suggerita.
Di norma il professionista dovrebbe emettere la fattura al momento dell’incasso maggiorandola dell’Iva e dei contributi previdenziali, Iva che di fatto, visto l’ordinamento della Cassazione, andrebbe perduta (il professionista incasserebbe quindi un 20% in meno).
In alternativa potrebbe, invero, emettere una fattura per l’intero importo incassato, scorporando la corrispondente Iva. Se incassa 100, potrebbe emettere la fattura per 100, Iva e 4% di contributi previdenziali compresi. In questo modo ci sarebbe sempre una perdita di Iva, ma ridotta. Ma ci si chiede: può il professionista fare un’imputazione diversa rispetto al pagamento ricevuto? E se lo fa, si tratta di un comportamento fiscalmente corretto?
Ricordiamo come, in presenza di più debiti della stessa natura nei confronti dello stesso creditore, il debitore può dichiarare quale debito intende pagare (art. 1193 del codice civile) imputandogli il pagamento.
In caso di riparto fallimentare, però, tale norma non è applicabile. Non si è in presenza di più debiti della stessa natura da pagarsi in modo diverso. Il riparto fallimentare necessariamente presuppone il pagamento nelle stesse identiche percentuali a tutti i creditori dello stesso grado. Non è possibile pagare in modo differente singoli debiti, oppure debiti con lo stesso privilegio. Il riparto stesso è un’imputazione, dettagliatamente regolamentata dalla legge; ed è impossibile, anche a nostro avviso, non tenerne conto, da parte del debitore.
Il debitore (la procedura fallimentare) non è, quindi, autorizzato ad effettuare imputazioni di sorta.
Ma il creditore è libero. Vediamo allora cosa può fare, in base all’art. 1195 del codice civile: “Chi, avendo più debiti, accetta una quietanza nella quale il creditore ha dichiarato di imputare il pagamento a uno di essi, non può pretendere un’imputazione diversa, se non vi è stato dolo o sorpresa da parte del creditore”. Presupposto base per l’imputazione, da parte del creditore, è la coesistenza di più debiti. In questo caso quanto la procedura paga è relativo ad un solo debito, non certamente a più debiti; l’Iva non costituisce, evidentemente, un secondo debito rispetto a quello per la prestazione. Il sistema normativo non pare, quindi, permettere l’imputazione da parte del creditore. Quindi, sotto questo aspetto non parrebbe possibile effettuare questa imputazione. Esaminiamo ora la fattispecie sotto l’aspetto fiscale.
Il professionista che si comportasse come sopra indicato dovrebbe essere, comunque, in perfetta regola. La legge impone di fatturare al momento dell’incasso, e questo ha fatto. È vero che c’è una discordanza di imputazione, tra professionista e procedura: il primo che imputa a compenso solo una parte, la procedura che considera tutto l’importo pagato come compenso; ma a ben vedere manca una norma che vieti esplicitamente tale comportamento. Da un punto di vista fiscale ciò dovrebbe essere lecito.
L’imputazione da parte del creditore, peraltro non esplicitamente ammessa ma nemmeno vietata, potrebbe, quindi, essere comunque tollerata. E nella pratica, sovente così accade.
7. La conferma dell’Agenzia delle Entrate
Su questo particolare tema l’Amministrazione finanziaria è finalmente intervenuta il 3 aprile 2008, con la ris. n. 127/E, [5] in risposta ad un interpello ed ha dato una interpretazione, a nostro avviso, interlocutoria ma molto interessante.
Ha sposato la tesi del danno limitato, per il professionista: “se il piano di riparto, approvato dal giudice fallimentare, dispone il pagamento parziale del credito riguardante le prestazioni professionali rese ante fallimento, ancorché lo stesso faccia riferimento alla sola voce imponibile iscritta tra i crediti privilegiati, sotto il profilo fiscale, i professionisti emetteranno fattura per un importo complessivo pari a quello ricevuto dal curatore, dal quale andrà scorporata l’IVA relativa. In altre parole, se l’importo liquidato dal giudice fallimentare risulta inferiore all’ammontare complessivo del credito professionale, comprensivo dell’Iva, il professionista al momento dell’emissione della fattura ridurrà proporzionalmente la base imponibile e la relativa imposta”. Da un punto di vista tributario, quindi, il comportamento già da molti seguito, è stato considerato corretto. Ma così facendo si dà una forte spallata a tutto l’inquadramento della Cassazione.
8. Recupero Iva finale
C’è in ogni caso un aspetto trascurato dalla dottrina ed anche dai pratici, e riguarda l’eventuale recupero dell’Iva non incassata alla fine della procedura, possibilità che, invero, riguarda tutti i creditori non soddisfatti per l’Iva (si pensi, ad esempio, agli artigiani con ammissione in privilegio dell’imponibile e dell’Iva in chirografo). Per la parte di Iva non incassata, e cioè tutta l’Iva secondo la Cassazione, solo una parte secondo l’Agenzia delle Entrate, come abbiamo visto, alla chiusura della procedura si potrà emettere una nota di credito, come è consuetudine per tutti i creditori?
Resta il problema di come redigerla, questa nota di credito. Scorporare l’Iva non riconosciuta in imponibile ed Iva, oppure emettere una nota di eredito solo per Iva?
L’argomento necessita un approfondimento; qui il tema è solo abbozzato.
9. Un nuovo spunto
Segnaliamo un interessante ulteriore nuovo spunto.
S. D’Amora,[6] preso atto dell’atteggiamento della Cassazione, che non considera quest’Iva credito di
massa, afferma che è in ogni caso “un bene (o comunque una parte del patrimonio della fallita) ben individuato che si riferisce al servizio prestato
perché (lo dice la S.C.) sorge in relazione alla prestazione effettuata”. Sempre secondo D’Amora, non pare “si possa dubitare che su detta porzione del
patrimonio si possa esercitare il privilegio speciale. Detto bene (il credito) prima di entrare a far parte del coacervo dei crediti IVA della fallita
ha una sua ben distinta individualità ed è separato dagli altri beni di pertinenza. Solo successivamente il credito viene realizzato con la
registrazione ai sensi dell’art. 19 della legge IVA, adempimento che, come noto, ne consente l’utilizzo a mezzo della compensazione con lo stesso o
altro tributo o la richiesta di rimborso”. “Il credito, anche se entra (come afferma la Suprema Corte) a far parte del patrimonio della fallita già fin
dal tempo della prestazione, trovando la sua ontologica origine nella prestazione stessa, mantiene, pur sempre una sua specificità ed è separato dagli
altri beni e quindi costituisce un bene del fallito su cui è possibile esercitare il privilegio alla stessa stregua di un
qualsiasi altro bene del fallito che non abbia perso alla data del fallimento la sua specifica individualità”. “In effetti la soluzione del problema
era sotto l’occhio di tutti, un vero e proprio uovo di Colombo”.
Condividiamo appieno tale tesi, e ne suggeriamo l’applicazione da parte dei professionisti. Ad un eventuale rifiuto da parte del fallimento, si procederà come più sopra indicato.
10. Conclusioni
La soluzione, uniforme, data dalla Cassazione non ci convince. Il professionista, comunque, per non essere danneggiato, non deve chiedere l’Iva in prededuzione né in chirografo; non deve proprio chiederla, quest’Iva.
Al momento dell’incasso per effetto di un riparto, emetterà la fattura, utilizzando modalità che la stessa Amministrazione finanziaria ammette, e cioè fatturare l’importo incassato Iva compresa, anche quando è liquidato senza Iva. Per quanto concerne il residuo, dovrà agire nei confronti della procedura, eccependo in quella sede l’arricchimento.
Non risultano sentenze note, su comportamenti di questo tipo.
In ogni caso appare pacifico che momento costitutivo del titolo per l’applicabilità dell’Iva è l’emissione della fattura, in questo caso emessa per effetto del riparto, non certamente l’effettuazione della prestazione stessa (quando mai?) contrariamente a quanto ritiene, errando, la Cassazione.
In ogni caso la Cassazione ha dato soluzioni che la stessa Amministrazione finanziaria ha sconfessato. A questo punto non resta che ingolfarla di ricorsi, e attendere.
Prima o poi ci sarà un revirement, ne siamo sicuri.
11. Esemplificazioni
Può risultare interessante una esemplificazione. Credito di un Dottore Commercialista di 100 + Iva 20% e 4% di C.N.P.A., fattura non emessa ante fallimento.
- Ammissione al passivo: il Dottore Commercialista chiede 100 in privilegio, compreso del 4% di contributo previdenziale, sempre in privilegio (ex ris. 3 aprile 2008 n. 127/E) su fattura da emettere;
- Riparto: pagamento di 100
Emissione fattura per 100, Iva e contributo 4% compresi.[7]
E quindi:
Imponibile 80,12
Contributo CNPADC 4% 3,21
83,33
Iva 20% 16,67
Totale 100,00
R.A. - 16,02
Netto 83,98
Il professionista a questo punto potrebbe agire nei confronti del fallimento con una specifica azione autonoma per il recupero del residuo 16,67, importo che comprende anche il contributo di previdenza ed è pari all’Iva nella fattura. Se incassa, il professionista emette poi la seguente fattura:
Imponibile 13,36
Contributo CNPADC 4% 0,53
13,89
Iva 20% 2,78
Totale 16,67
R.A. 20% 2,67
14.00
Alla chiusura della procedura, ove il professionista non abbia ancora incassato la differenza di 16,67, pari all’Iva sulla fattura, si pone la questione, già segnalata, se possa o meno emettere una nota di credito.
[1] Si elenca qui di seguito la serie di sentenze della Cassazione, assolutamente uniformi, che hanno escluso ogni privilegio a questa Iva: 24 aprile 1979, n. 2320; 27 ottobre 1982, n. 5623, in “Il Fallimento”, 1983, pag. 589, entrambe in banca dati “fisconline”; 26 marzo 1992, n. 3715, in “Il Fallimento”, 1992, pag. 786; 13 novembre 1992, n. 12207, in “Dir. Prat. Trib.”, 1993, II, 911; 6 agosto 1993, n. 8556, in “Il Fallimento”, 1994, pag. 138; 4 giugno 1994, n. 5429, in “Il diritto fallimentare delle società commerciali”, 1995, pag. 321; 1° febbraio 1995, n. 1115, in “Il diritto fallimentare delle società commerciali”, 1995, II, pag. 320; 2 febbraio 1995, n. 1227; 1° giugno 1995, n. 6149, in “Impresa”, n. 9/1995, pag. 1661; 15 settembre 1995, n. 9763, in banca dati “fisconline”; 19 marzo 1996, n. 2312, in “Il Fallimento”, 1996, pag. 771; 13 dicembre 1996, n. 11143, in “Il diritto fallimentare delle società commerciali”, 1997, pag. 717, in banca dati “fisconline”; 26 maggio 1997, n. 4648, in “Il diritto fallimentare delle società commerciali”, n. 1/1998, pag. 36; 8 novembre 1997, n. 11026; 10 novembre 1997, n. 11044; per arrivare dopo oltre 10 anni, alla sent. 12 giugno 2008, n. 15690.
[2] Sent. n. 2438 del 3 febbraio 2006.
[3] Le ultime due in banca dati “fisconline”.
[4] Dep. il 6 maggio 1999, in “Diritto e Pratica delle società”, “Il Sole-24 Ore” n. 17 del 27 settembre 1999, con commento in M.P.M. e in banca dati “fisconline”
[5] In www.ilfisco.it, alla voce documentazione online.
[6] Il privilegio del credito di rivalsa IVA del professionista, in “Il Caso.it“ del 28 aprile 2009.
[7] Fattura ridotta rispetto al totale che sarebbe stato di:
Imponibile 100,00
Contrib. 4% 4.00
104,00
Iva 20% 20.80
124,80
R.A. 20% su 100 20,00
104.80