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>> Anno 2009

Iva addebitata in fattura dai professionisti nel fallimento

di Giuseppe Rebecca
Il Fisco, N. 22 - 1 giugno 2009 

L’Iva sulla fattura, emessa da un professioni­sta in seguito ad un riparto fallimentare è da considerarsi un credito in chirografo, anche se la prestazione è in privilegio. Così sostiene, in modo uniforme, la consolidata giurisprudenza delia Cassazione. È evidente l’errore. Si tratta, invece, di un’lva che non va richiesta in sede di ammissione allo stato passivo, ma solo successivamente, al momento del paga­mento. Qualora il fallimento non la pagasse (come di solito o, meglio, sempre accade) si tratterebbe (per la procedura) di un arricchi­mento. L’Amministrazione finanziaria ha aper­to uno spiraglio, Io scorso anno, e così si ridu­ce il danno.

Ma, nonostante la presa di posizione della Cassazione, si confida in un revirement che finalmente risolva alla radice la situazione, in ogni caso ci sono interessanti sviluppi dot­trinari.

1. Premessa

Il professionista emette la fattura normalmente al momento dell’incasso. Antecedentemente e­mette un documento denominato “fattura pro-forma”; lo stesso iter, peraltro, è consentito per tutte le prestazioni di servizi.

In questo articolo esamineremo come trattare l’Iva relativa alle predette prestazioni in caso di fallimento del debitore. Queste le opzioni che si propongono: richiedere quest’Iva in chirografo, in privilegio oppure in prededuzione o, infi­ne, in prededuzione condizionata. Pare argomento di poco conto, ma, in realtà, si tratta di migliaia di casi, e una dimostrazione dell’importanza ce la dà proprio la stessa Cassa­zione, chiamata moltissime volte su questo pun­to. E la Cassazione è intervenuta sempre in mo­do univoco, e, a nostro parere, errato: per la Cassazione questa Iva è da considerare in chirografo.

Nessun privilegio, ma nemmeno nessuna prede­duzione. Semplicemente ammissione in chiro­grafo. Nonostante le numerose sentenze univo­che, siamo dell’avviso che la parola fine non sia ancora stata pronunciata, e che, prima o poi, la Cassazione si potrà ravvedere. Cerchiamo qui di confutare questa consolidata tesi, auspicando che alla fine venga accolta dalla magistratura, eliminando alla radice un orienta­mento che crea vantaggi alla massa dei creditori a tutto danno del creditore singolo professio­nista che deve emettere la fattura al fallimento.

2. Il comportamento dai più seguito

Probabilmente la Cassazione è stata indotta in errore dagli stessi professionisti creditori, che, da parte loro, continuano a presentare domande di ammissione chiedendo quest’Iva in privilegio o in prededuzione condizionata al successivo pa­gamento da parte del fallimento. Ma quest’Iva non è da chiedere in sede di am­missione allo stato passivo, evitando così al curatore il problema di doverla classificare (chirografa o privilegiata o prededuzione). È, infatti, del tutto indiscutibile che si tratti di un credito che sorge nel corso della procedura stessa. Ne consegue che quest’Iva dovrà essere pagata in via prededucibile. E, qualora la procedura non la pagasse, lo stesso professionista dovrà agire nei confronti della procedura, ma con un’azione a parte.

Nessuna ammissione al passivo, né tantomeno alcuna richiesta, può essere allora avanzata a ta­le titolo nei confronti della massa; e questo è proprio l’errore in cui sono incorsi i professioni­sti e, forse conseguentemente, la stessa Cassa­zione.

3. Le sentenze della Cassazione

La tesi seguita dalla Cassazione contrasta indi­scutibilmente con il meccanismo applicativo dell’imposta, creando un arricchimento per la procedura (la quale si trova così a detrarre Iva non pagata), arricchimento non giustificabile.

La Cassazione ha, comunque, sempre negato sia il privilegio che la prededuzione[1] ed anche l’arricchimento.

Su questo specifico punto, tra tutte, Sez. I, 26 maggio 1997, n. 4648: “il professionista, al quale nel piano di riparto parziale sia stata assegnata per prestazioni professionali una somma non comprensiva del credito per rivalsa IVA, potendo proporre reclamo al tribunale fallimentare ex art. 26 L.F. avverso il decreto con il quale il giu­dice delegato ha reso esecutivo il piano di ripar­to, non può proporre domanda di accertamento e declaratoria di arricchimento senza causa del­la curatela fallimentare per la somma corri­spondente all’importo della rivalsa IVA”.

Si tratta, a nostro avviso, di un’Iva prededuci­bile, come abbiamo detto; la prededucibilità non può però essere richiesta, per la prima volta, in sede di opposizione ad esclusione dallo stato passivo del fallimento.

La Cassazione è anche intervenuta[2] per rigettare un reclamo di un professionista ad un piano di riparto che prevedeva solo il pagamento del cre­dito del professionista ammesso in privilegio, e non dell’Iva, peraltro ammessa in chirografo. La Corte ha respinto il reclamo non essendosi a suo tempo opposto all’approvazione dello stato pas­sivo.

Riportiamo la massima di questa ultima senten­za: “il credito di rivalsa IVA di un professionista che, eseguite prestazioni a favore di imprendito­re poi dichiarato fallito, emetta la fattura per il relativo compenso in costanza di fallimento (nel­la specie, a seguito del pagamento ricevuto in esecuzione di un riparto parziale), non è qualifi­cabile come credito di massa, da soddisfare in prededuzione ai sensi dell’art. 111, primo com­ma, L.F. (applicabile nel testo “ratione temporis”), in quanto la disposizione dell’art. 6 del D.P.R. n. 633 del 1972, secondo cui le prestazio­ni di servizi si considerano effettuate all’atto del pagamento del corrispettivo, non pone una re­gola generale rilevante in ogni campo del dirit­to, cosicché, in particolare, dal punto di vista ci­vilistico la prestazione professionale conclusasi prima della dichiarazione di fallimento resta l’evento generatore del credito di rivalsa IVA, au­tonomo rispetto al credito perla prestazione, ma ad esso soggettivamente e funzionalmente con­nesso. Il medesimo credito di rivalsa può giovar­si del solo privilegio speciale di cui all’art. 2758, secondo comma, cod. civ., nel testo di cui all’art. 5 della legge n. 426 del 1975, nel caso in cui sussistano beni - che il creditore ha l’onere di indicare in sede di domanda di ammissione al passivo - su cui esercitare la causa di prelazione. Nel caso, poi, in cui detto credito non trovi utile collocazione in sede di riparto, non è configura­bile una fattispecie di indebito arricchimento, ai sensi dell’art. 2041 cod. civ., in relazione al vantaggio conseguibile dal fallimento mediante la detrazione dell’IVA di cui alla fattura, poiché tale situazione è conseguenza del sistema nor­mativo concorsuale” (il corsivo è nostro). Commentiamo brevemente questa sentenza.

È pacifico, nella fattispecie esanimata, che la prestazione sia stata svolta ante fallimento.

È altrettanto pacifico che è errato il secondo assunto, e cioè che l’evento generatore del credito Iva sia sorto ante fallimento. Ciò con­trasta evidentemente con la struttura stessa del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633. Il credito Iva è sorto solo al momento della fat­turazione, e quindi è pacifico che è sorto duran­te la procedura.

È di tutta evidenza che la Cassazione non ha da­to una soluzione logica alla fattispecie.

Ma uno spiraglio per l’ammissione della prededucibilità pare venire proprio da una risalente sentenza della Cassazione, la n. 12207 del 13 no­vembre 1992. Il professionista aveva chiesto l’Iva su fattura da ammettere in privilegio. La Corte ha sentenziato che “La tesi della prededucibilità ... presuppone che il credito IVA, in caso di ri­serva del professionista di fatturazione solo in fase di pagamento, emerga e sussista (oltre che essere quantificato) solo al momento del riparto. Chiedendo l’ammissione in privilegio, in principa­lità generale come sopra spiegato, ed in subordine come speciale ...il creditore ammetteva, per con­tro, che il credito era sussistente (ancorché condi­zionato) al momento della verificazione dei credi­ti, il che portava ad escludere che fosse stato de­dotto il presupposto stesso della prededucibilità”.

Il professionista avrebbe, quindi, dovuto esclu­dere il credito de quo nella sua domanda di insi­nuazione al passivo fallimentare, richiedendolo (in prededuzione) solo al momento in cui in­sorgeva l’obbligo della fatturazione, cioè all’at­to del pagamento delle competenze (in esecu­zione del piano di riparto) da parte del curatore.

4. Le sentenze di merito

Al contrario di quanto sostenuto dalla Cassazio­ne, circa la tesi della prededucibilità, tesi che non penalizzerebbe i professionisti, si erano in­vece pronunciati più giudici di merito: trib. di Como, sent. n. 299 del 14 marzo 1991; trib. di Firenze, decr. 20 dicembre 1995, in “Il Foro To­scano”, n. 1/1996, pag. 55 e trib. di Pisa, sent. n. 121 del 12 febbraio 1999.[3]

Si segnala anche l’interessante decreto del Giu­dice delegato del trib. di Roma del 3 maggio 1999:[4] “poiché l’obbligo della fatturazione sorge a carico del professionista non al momento dell’ammissione al passivo del credito per pre­stazioni professionali, bensì al momento del riparto dell’attivo in suo favore, il credito di rivalsa per Iva, alla medesima stregua degli altri obblighi di legge insorti nel corso della gestione fallimentare, ha natura prededucibile”. Il decreto ha tratto origine da una istanza del curatore avente per oggetto le “direttive relative alla collocazione del credito per rivalsa Iva nello stato passivo e nei riparti”. È auspicabile che molti curatori ne seguano l’esempio, e chiedano formalmente al proprio Giudice delegato istru­zioni in materia. Qualcosa si smuoverebbe di si­curo.

Ha fatto seguito la comunicazione del trib. di Genova del 7 novembre 2001; il Presidente della Sezione fallimentare ha così motivato: “rendo noto che la sezione fallimentare di questo Tri­bunale ha deciso di assumere un diverso orien­tamento sul credito in oggetto. Quest’ultimo de­ve, invero, considerarsi credito di massa e non già concorsuale (come ritenuto in precedenza). Infatti occorre sottolineare:

a) che il momento (convenzionale ai soli fini fi­scali) in cui si perfeziona il presupposto im­positivo si verifica, ai sensi dell’art. 6 D.P.R. 26/10/72 n. 633, con il pagamento del corri­spettivo;

b) che il professionista esercita, al momento del pagamento, la rivalsa per IVA ex art. 18 D.P.R. 72 n. 633 (rivalsa obbligatoria stante la nullità di ogni patto contrario);

c) che il versamento dell’IVA per i soggetti passi­vi di tale imposta (tra i quali rientra ex art. 74 bis D.P.R. 72 n. 633 il fallimento) non è il soddisfacimento di un debito ma una mera partita di giro poiché il meccanismo dell’im­posta de qua determina tra i titolari di partita IVA ‘entrate per partite di giro ed uscite per partite di giro corrispondenti ad entrate ac­certate e riscosse per conto terzi ed uscite im­pegnate e pagate per conto di terzi’.

Conseguentemente il versamento dell’IVA da parte del fallimento (accreditando l’importo nel­le relative scritture) al professionista che poi la verserà a sua volta all’Erario è un’attività il cui presupposto (previsto dalla normativa fiscale speciale) nasce a seguito di un atto della pro­cedura, vale a dire il pagamento in sede dì ri­parto al professionista, e non rappresenta un debito per quest’ultima bensì una partita di giro, stante il principio della neutralità di tale impo­sta per i soggetti passivi.

Pertanto il credito de quo (ancora inesistente e per di più incalcolabile non essendo nota l’entità del riparto) non deve essere oggetto di domanda in sede di verifica del passivo fallimentare. Per quanto invece attiene al contributo per la cassa di previdenza non sussistono le mede­sime ragioni descritte in relazione al credito per rivalsa IVA. In particolare non ricorre il feno­meno dell’attribuzione alla massa fallimentare di un credito per rivalsa caratterizzato dalla neu­tralità dell’onere e della sua necessaria gestione da parte degli organi della procedura. Il contri­buto in esame costituisce in effetti. un credito che, alla stregua di quello relativo alle prestazio­ni professionali, concorre a formare la base im­ponibile per la determinazione dell’IVA. Ad esso, pertanto, non può essere riconosciuta la prede­ducibilità rimanendo estraneo all’amministra­zione del fallimento”.

In dottrina, ricordiamo la presa di posizione dell’Associazione dei Dottori Commercialisti con la norma di comportamento n. 91 ancora del novembre 1986, per la tesi della prededucibilità.

5. Una possibile diversa soluzione

Il professionista potrebbe fare anche qualcosa di diverso, rispetto a quanto qui riportato.

Abbiamo già segnalato come sia errato chiedere l’Iva in sede di ammissione allo stato passivo, così come, invece, abitualmente si fa; se si repu­ta che si tratti di un importo dovuto in via di prededuzione, il relativo credito nasce nello stesso momento del pagamento ed è solo allora che sorge.

Debitore diviene la procedura fallimentare, ed è verso il fallimento che bisognerà agire. Ne con­segue che non si dovrà chiedere questa Iva in sede di ammissione al passivo; la si chiederà al fallimento, quando si emetterà la fattura per quanto incassato con il riparto. Il fallimento de­trae l’Iva relativa alla fattura ricevuta, e quindi recupererà, prima o poi, questa Iva dall’Erario. Ne terrà, infatti, conto nella liquidazione che ef­fettuerà; sarebbe Iva perduta solo nel caso in cui la procedura non avesse più alcuna operazione attiva da assoggettare ad Iva, e magari alla fine abbandonasse il credito Iva, piuttosto che ceder­lo a terzi o ad uno o più creditori. Inoltre, da quando il fallimento è sostituto di imposta, ulte­riore occasione per recuperare il credito Iva è la compensazione delle ritenute d’acconto do­vute proprio su fatture pagate ai professionisti.

Ove la procedura dovesse, comunque, insistere per non effettuare il pagamento, il professionista potrebbe legittimamente agire giudizialmente per ottenere l’incasso dell’Iva che è dovuta pro­prio in quel momento, cioè nel momento della emissione della fattura.

Forse per questa strada ci potrebbe essere qual­che speranza di vittoria; non risultano, comun­que, precedenti in materia.

Di fronte a un’interpretazione così univoca della Cassazione, non c’è altra via, almeno fino a quando la Cassazione stessa non cambierà atteg­giamento.

6. L’alternativa

Esiste, comunque, una alternativa che consente in ogni caso di limitare il danno al professio­nista che, emettendo la fattura, si troverebbe in­ciso di un 20% secco di Iva.

La Cassazione ha sempre giustificato il suo at­teggiamento, a nostro avviso errato, sostenendo che il professionista si trova alla pari di qualsiasi altro creditore e che, quindi, incassa l’eventuale Iva in chirografo.

Ma questo non è esatto: chi ha già emesso la fat­tura, e ben potrebbe essere anche un professio­nista, l’ha emessa nei confronti dell’impresa al­lora in bonis, che ha detratto l’Iva. Il fallimento è intervenuto solo successivamente ; la fattura nel nostro caso è, invece, emessa ora, proprio nei confronti della procedura fallimentare, che registra quest’Iva a credito, dopo l’avvio della procedura stessa.

È evidente che la situazione non sia certamente la stessa.

Spieghiamo ora l’alternativa suggerita.

Di norma il professionista dovrebbe emettere la fattura al momento dell’incasso maggiorandola dell’Iva e dei contributi previdenziali, Iva che di fatto, visto l’ordinamento della Cassazione, an­drebbe perduta (il professionista incasserebbe quindi un 20% in meno).

In alternativa potrebbe, invero, emettere una fat­tura per l’intero importo incassato, scorporando la corrispondente Iva. Se incassa 100, potrebbe emettere la fattura per 100, Iva e 4% di contribu­ti previdenziali compresi. In questo modo ci sa­rebbe sempre una perdita di Iva, ma ridotta. Ma ci si chiede: può il professionista fare un’im­putazione diversa rispetto al pagamento ricevu­to? E se lo fa, si tratta di un comportamento fi­scalmente corretto?

Ricordiamo come, in presenza di più debiti della stessa natura nei confronti dello stesso credito­re, il debitore può dichiarare quale debito inten­de pagare (art. 1193 del codice civile) imputan­dogli il pagamento.

In caso di riparto fallimentare, però, tale norma non è applicabile. Non si è in presenza di più debiti della stessa natura da pagarsi in modo di­verso. Il riparto fallimentare necessariamente presuppone il pagamento nelle stesse identiche percentuali a tutti i creditori dello stesso grado. Non è possibile pagare in modo differente singo­li debiti, oppure debiti con lo stesso privilegio. Il riparto stesso è un’imputazione, dettagliata­mente regolamentata dalla legge; ed è impossibi­le, anche a nostro avviso, non tenerne conto, da parte del debitore.

Il debitore (la procedura fallimentare) non è, quindi, autorizzato ad effettuare imputazioni di sorta.

Ma il creditore è libero. Vediamo allora cosa può fare, in base all’art. 1195 del codice civile: “Chi, avendo più debiti, accetta una quietanza nella quale il creditore ha dichiarato di imputare il pagamento a uno di essi, non può pretendere un’imputazione diversa, se non vi è stato dolo o sorpresa da parte del creditore”. Presupposto base per l’imputazione, da parte del creditore, è la coesistenza di più debiti. In questo caso quanto la procedura paga è relativo ad un solo debito, non certamente a più debiti; l’Iva non costituisce, evidentemente, un secondo debito rispetto a quello per la prestazione. Il sistema normativo non pare, quindi, permet­tere l’imputazione da parte del creditore. Quindi, sotto questo aspetto non parrebbe possibile ef­fettuare questa imputazione. Esaminiamo ora la fattispecie sotto l’aspetto fi­scale.

Il professionista che si comportasse come sopra indicato dovrebbe essere, comunque, in perfetta regola. La legge impone di fatturare al momento dell’incasso, e questo ha fatto. È vero che c’è una discordanza di imputazione, tra professionista e procedura: il primo che imputa a compenso solo una parte, la procedura che considera tutto l’importo pagato come compenso; ma a ben ve­dere manca una norma che vieti esplicitamente tale comportamento. Da un punto di vista fiscale ciò dovrebbe essere lecito.

L’imputazione da parte del creditore, peraltro non esplicitamente ammessa ma nemmeno vie­tata, potrebbe, quindi, essere comunque tollera­ta. E nella pratica, sovente così accade.

7. La conferma dell’Agenzia delle Entrate

Su questo particolare tema l’Amministrazione finanziaria è finalmente intervenuta il 3 aprile 2008, con la ris. n. 127/E, [5] in risposta ad un in­terpello ed ha dato una interpretazione, a nostro avviso, interlocutoria ma molto interessante.

Ha sposato la tesi del danno limitato, per il professionista: “se il piano di riparto, approvato dal giudice fallimentare, dispone il pagamento parziale del credito riguardante le prestazioni professionali rese ante fallimento, ancorché lo stesso faccia riferimento alla sola voce imponibi­le iscritta tra i crediti privilegiati, sotto il profilo fiscale, i professionisti emetteranno fattura per un importo complessivo pari a quello ricevuto dal curatore, dal quale andrà scorporata l’IVA relativa. In altre parole, se l’importo liquidato dal giudice fallimentare risulta inferiore all’ammontare complessivo del credito professionale, compren­sivo dell’Iva, il professionista al momento dell’e­missione della fattura ridurrà proporzional­mente la base imponibile e la relativa imposta”. Da un punto di vista tributario, quindi, il compor­tamento già da molti seguito, è stato considerato corretto. Ma così facendo si dà una forte spallata a tutto l’inquadramento della Cassazione.

8. Recupero Iva finale

C’è in ogni caso un aspetto trascurato dalla dot­trina ed anche dai pratici, e riguarda l’eventuale recupero dell’Iva non incassata alla fine della procedura, possibilità che, invero, riguarda tutti i creditori non soddisfatti per l’Iva (si pensi, ad esempio, agli artigiani con ammissione in privi­legio dell’imponibile e dell’Iva in chirografo). Per la parte di Iva non incassata, e cioè tutta l’Iva secondo la Cassazione, solo una parte se­condo l’Agenzia delle Entrate, come abbiamo vi­sto, alla chiusura della procedura si potrà emet­tere una nota di credito, come è consuetudine per tutti i creditori?

Resta il problema di come redigerla, questa nota di credito. Scorporare l’Iva non riconosciuta in imponibile ed Iva, oppure emettere una nota di eredito solo per Iva?

L’argomento necessita un approfondimento; qui il tema è solo abbozzato.

9. Un nuovo spunto

Segnaliamo un interessante ulteriore nuovo spunto.

S. D’Amora,[6] preso atto dell’atteggiamento della Cassazione, che non considera quest’Iva credito di massa, afferma che è in ogni caso “un bene (o comunque una parte del patrimonio della fallita) ben individuato che si riferisce al servizio pre­stato perché (lo dice la S.C.) sorge in relazione alla prestazione effettuata”. Sempre secondo D’Amora, non pare “si possa dubitare che su detta porzione del patrimonio si possa esercitare il privilegio speciale. Detto bene (il credito) prima di entrare a far par­te del coacervo dei crediti IVA della fallita ha una sua ben distinta individualità ed è separato dagli altri beni di pertinenza. Solo successivamente il credito viene realizzato con la registrazione ai sensi dell’art. 19 della leg­ge IVA, adempimento che, come noto, ne con­sente l’utilizzo a mezzo della compensazione con lo stesso o altro tributo o la richiesta di rimborso”. “Il credito, anche se entra (come afferma la Suprema Corte) a far parte del patrimonio della fallita già fin dal tempo della prestazione, trovando la sua ontologica origine nella prestazione stessa, mantiene, pur sempre una sua specificità ed è separato dagli altri beni e quindi costituisce un bene del fallito su cui è possibile esercitare il privilegio alla stessa stregua di un
qualsiasi altro bene del fallito che non abbia perso alla data del fallimento la sua specifica individualità”. “In effetti la soluzione del problema era sotto l’occhio di tutti, un vero e proprio uovo di Colombo”.

Condividiamo appieno tale tesi, e ne suggeriamo l’applicazione da parte dei professionisti. Ad un eventuale rifiuto da parte del fallimento, si procederà come più sopra indicato.

10. Conclusioni

La soluzione, uniforme, data dalla Cassazione non ci convince. Il professionista, comunque, per non essere danneggiato, non deve chiedere l’Iva in prededuzione né in chirografo; non deve proprio chiederla, quest’Iva.

Al momento dell’incasso per effetto di un ripar­to, emetterà la fattura, utilizzando modalità che la stessa Amministrazione finanziaria ammette, e cioè fatturare l’importo incassato Iva compre­sa, anche quando è liquidato senza Iva. Per quanto concerne il residuo, dovrà agire nei confronti della procedura, eccependo in quella sede l’arricchimento.

Non risultano sentenze note, su comportamenti di questo tipo.

In ogni caso appare pacifico che momento costi­tutivo del titolo per l’applicabilità dell’Iva è l’emissione della fattura, in questo caso e­messa per effetto del riparto, non certamente l’effettuazione della prestazione stessa (quando mai?) contrariamente a quanto ritiene, errando, la Cassazione.

In ogni caso la Cassazione ha dato soluzioni che la stessa Amministrazione finanziaria ha scon­fessato. A questo punto non resta che ingolfarla di ricorsi, e attendere.

Prima o poi ci sarà un revirement, ne siamo si­curi.

11. Esemplificazioni

Può risultare interessante una esemplificazione. Credito di un Dottore Commercialista di 100 + Iva 20% e 4% di C.N.P.A., fattura non emessa ante fallimento.

- Ammissione al passivo: il Dottore Commercia­lista chiede 100 in privilegio, compreso del 4% di contributo previdenziale, sempre in privile­gio (ex ris. 3 aprile 2008 n. 127/E) su fattura da emettere;

- Riparto: pagamento di 100

Emissione fattura per 100, Iva e contributo 4% compresi.[7]

E quindi:

Imponibile 80,12

Contributo CNPADC 4% 3,21

83,33

Iva 20% 16,67

Totale 100,00

R.A. - 16,02

Netto 83,98

Il professionista a questo punto potrebbe agire nei confronti del fallimento con una specifica azione autonoma per il recupero del residuo 16,67, importo che comprende anche il contri­buto di previdenza ed è pari all’Iva nella fattura. Se incassa, il professionista emette poi la se­guente fattura:

Imponibile 13,36

Contributo CNPADC 4% 0,53

13,89

Iva 20% 2,78

Totale 16,67

R.A. 20% 2,67

14.00

Alla chiusura della procedura, ove il professioni­sta non abbia ancora incassato la differenza di 16,67, pari all’Iva sulla fattura, si pone la que­stione, già segnalata, se possa o meno emettere una nota di credito.




[1] Si elenca qui di seguito la serie di sentenze della Cassazione, assolutamente uniformi, che hanno escluso ogni privilegio a questa Iva: 24 aprile 1979, n. 2320; 27 ottobre 1982, n. 5623, in “Il Fallimento”, 1983, pag. 589, entrambe in banca dati fisconline”; 26 marzo 1992, n. 3715, in “Il Fallimento”, 1992, pag. 786; 13 novembre 1992, n. 12207, in “Dir. Prat. Trib.”, 1993, II, 911; 6 agosto 1993, n. 8556, in “Il Fallimen­to”, 1994, pag. 138; 4 giugno 1994, n. 5429, in “Il diritto fal­limentare delle società commerciali”, 1995, pag. 321; 1° feb­braio 1995, n. 1115, in “Il diritto fallimentare delle società commerciali”, 1995, II, pag. 320; 2 febbraio 1995, n. 1227; 1° giugno 1995, n. 6149, in “Impresa”, n. 9/1995, pag. 1661; 15 settembre 1995, n. 9763, in banca dati fisconline”; 19 marzo 1996, n. 2312, in “Il Fallimento”, 1996, pag. 771; 13 dicem­bre 1996, n. 11143, in “Il diritto fallimentare delle società commerciali”, 1997, pag. 717, in banca dati “fisconline”; 26 maggio 1997, n. 4648, in “Il diritto fallimentare delle società commerciali”, n. 1/1998, pag. 36; 8 novembre 1997, n. 11026; 10 novembre 1997, n. 11044; per arrivare dopo oltre 10 anni, alla sent. 12 giugno 2008, n. 15690.

[2] Sent. n. 2438 del 3 febbraio 2006.

[3] Le ultime due in banca dati fisconline”.

[4] Dep. il 6 maggio 1999, in “Diritto e Pratica delle società”, “Il Sole-24 Ore” n. 17 del 27 settembre 1999, con com­mento in M.P.M. e in banca dati “fisconline”

[5] In www.ilfisco.it, alla voce documentazione online.

[6] Il privilegio del credito di rivalsa IVA del professionista, in “Il Caso.it“ del 28 aprile 2009.

[7] Fattura ridotta rispetto al totale che sarebbe stato di:

Imponibile 100,00

Contrib. 4% 4.00

104,00

Iva 20% 20.80

124,80

R.A. 20% su 100 20,00

104.80

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