Vicenza, Sabato 21 Dicembre 2024

>> Anno 2008

Recesso del socio da società di persone

In questo articolo illustriamo una tesi diversa, invero isolata, ancorché non nuova, in riferimento alla qualificazione reddituale da riservare alle somme percepite dal socio non imprenditore di società di persone quale «differenza da recesso».

L’ultimo intervento dell’Agenzia sul tema (con la R.M. 25 febbraio 2008, n. 64/E) qualifica tali somme come reddito di impresa.

Si propone, invece, di valutare la suddetta differenza come reddito di capitale.

In questo contributo ci riproponiamo di chiarire questi aspetti, a nostro avviso ancora controversi.

TRATTAMENTO CIVILISTICO del RECESSO

Il Codice civile dispone che la liquidazione della quota sociale sia operata in virtù di una situazione patrimoniale straordinaria della società, redatta alla data in cui si manifesta la richiesta di recesso. È evidente che la determinazione del quantum dovuto al recedente farà i conti con l’effettiva consistenza economica del patrimonio sociale, considerando quindi le operazioni in corso, eventuali plusvalori latenti e l’avviamento. Le cause che possono innescare la fattispecie analizzata sono sintetizzate nella tabella seguente.

Cause

Art. Codice civile

Descrizione

Morte

Art. 2284, c.c.

I soci superstiti devono liquidare la quota agli eredi, a meno che non si preferisca sciogliere la società o continuarla (ed. clausola di continuazione) con gli eredi stessi, previo loro consenso.

Recesso

Art. 2285, c.c.

Occorre un preavviso di almeno 3 mesi se il contratto societario ha durata indeterminata (c.d. «recesso ad nutum»); senza una data esplicita, nei casi previsti dal contratto sociale o per giusta causa. *

Esclusione

Art. 2286, c.c.

Attivabile quando il socio compie gravi inadempienze (legali o contrattua­li), per l’inabilitazione o condanna ad una pena che comporta l’interdi­zione, anche temporanea, dai pubblici uffici.

* L’art. 2285, Codice civile non offre alcuna specificazione in merito a cosa integri gli estremi di una giusta causa di recesso. A livello giurisprudenziale la giusta causa sussiste quando si ravvisano delle violazioni altrui agli obblighi contrattuali, oppure violazioni dei doveri dì fedeltà, lealtà, diligenza o correttezza inerenti al rapporto fiduciario esistente tra soci e società. Per «giusta causa» potrebbe ad esempio intendersi l’ipotesi di un socio che receda per mancata comunicazione dei rendiconti e dei bilanci annuali o un dissidio insanabile tra i soci.

Il socio recedente ha diritto alla liquidazione della quota (art. 2289, c.c.) mediante:

- il pagamento (senza la corresponsione di alcun interesse), entro sei mesi dal giorno in cui si verifica lo scioglimento del rapporto, di una somma di denaro di valore pari alla quota stessa; oppure,

- l’attribuzione di beni diversi dal denaro e rap-presentati, ad esempio, da mobili o immobili.

Recesso per il socio recedente

Generalmente, per effetto di plusvalori latenti sui beni d’impresa e/o dell’avviamento, il socio recedente vede liquidare la propria quota con valori superiori a quelli contabili e fiscali riconosciuti alla partecipazione detenuta.

L’art. 20-bis, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, [1] come noto, dispone che «ai fini della determinazione dei redditi di partecipazione compresi nelle somme attribuite o nei beni assegnati ai soci o agli eredi, di cui all’art. 17, comma 1, lettera l), si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni dell’art. 47, comma 7, indipendentemente dall’applicabilità della tassazione separata». Appare evidente che il trattamento fiscale da riservare al socio rimanda alle disposizioni previste in materia di recesso o liquidazione del socio di società di capitali. L’art. 47, co. 7, Tuir dispone, infatti, che il reddito emergente in caso di recesso sia determinato dalla differenza tra la somma percepita in fase di liquidazione della quota ed il prezzo originariamente pagato per acquistare la partecipazione. L’espressione «prezzo pagato» va intesa in senso lato, quale «costo fiscalmente riconosciuto» della partecipazione. Soprattutto nelle società di persone, infatti, il prezzo pagato è solo uno degli elementi da considerare; tale valore originario è aumentato dei redditi imputati per trasparenza nelle varie annualità e diminuito degli utili eventualmente distribuiti e delle perdite realizzate, ciò anche, dal 1° gennaio 2004, per società immobiliari e finanziarie per effetto della variazione apportata dal D.Lgs. 12 dicembre 2003, n. 344.[2] Nell’importo liquidato al socio recedente confluiscono congiuntamente valori diversi e così sintetizzabili:

Prezzo pagato =

+ Quota di capitale, di riserve e di utili già iscritti in bilancio

+ Quota dell’utile in corso di formazione nell’esercizio

+ Quota di avviamento

+ Quota di plusvalori al netto delle minusvalenze

Al socio recedente, in definitiva, sono corrisposti due distinti valori:

- uno di tipo «patrimoniale», rimborsa la quota del capitale sociale e delle riserve di utili già tassati per trasparenza in capo al socio. Ai sensi dell’art. 163, Tuir non è pertanto tassabile; [3]

- uno di tipo «reddituale» cosiddetta «differenza da recesso», corrisponde al socio cessato quota delle plusvalenze latenti, dell’avviamento, degli utili in corso di formazione nell’anno di cessazione e delle eventuali riserve in sospensione d’imposta distribuite ed è tassabile.

Componenti del prezzo

Componente patrimoniale (= rimborso del capitale) non tassabile

Componente reddituale (= differenza da recesso) tassabile

In merito al corretto trattamento fiscale della componente tassabile riferibile alla «differenza da recesso», le istruzioni di Unico PF 2008 al quadro RM alla sezione II, lett. f) affermano che vanno indicati «i redditi compresi nelle somme attribuite o nel valore normale dei beni assegnati ai soci delle società indicate nell’art. 5 del Tuir, nei casi di recesso, esclusione (...), se il periodo di tempo intercorso tra la costituzione della società e la comunicazione del recesso o dell’esclusione, (...), è superiore a cinque anni». Se tra la data di costituzione della società e quella dello scioglimento del rapporto sociale sono trascorsi meno di cinque anni si applica la tassazione ordinaria.[4]

Differenza da recesso

Componenti del prezzo

Tassazione separata (regime naturale)

Tassazione ordinaria (per opzione)

Condizione: costituzione della società da 5 anni

Classificazione del «reddito di partecipazione»

L’art. 6, Tuir dispone che i redditi sono classificabili in 6 categorie: redditi fondiari, redditi di capitale, redditi di lavoro dipendente, redditi di lavoro autonomo, redditi d’impresa e redditi diversi. L’art. 6, D.P.R. 42/1988 e l’art. 20-bis, Tuir in merito alle somme liquidate al socio receduto non fanno esplicito riferimento a nessuna delle famiglie reddituali suddette, ma utilizzano la dicitura «reddito di partecipazione».

Intervenuta sulla questione, la C.M. 13 marzo 2006, n. 10/E, ha precisato che il cosiddetto «reddito di partecipazione» non integra un’autonoma categoria reddituale, suggerendo che lo stesso debba, a fortiori ratione, essere catalizzato da una delle categorie precedentemente richiamate.

Reddito di partecipazione

categorie reddituali possibili

Reddito di capitale

Reddito diverso

Reddito d’impresa

Reddito di lavoro autonomo

Pressoché tutta la dottrina, e con essa la prassi recente, si sono omologate nell’interpretare il «reddito di partecipazione» quale reddito d’impresa. La questione, ancor oggi, ci sembra invece non correttamente risolta e affidata alle supposizioni. La risoluzione in commento si è conformata alla teoria più condivisa, ma secondo noi non pienamente convincente, che qualifica il «reddito di partecipazione» quale reddito d’impresa. In sintesi, le soluzioni al problema della corretta qualifica reddituale del «reddito di partecipazione» sono essenzialmente due:

• una prima interpretazione, da noi proposta, considera il reddito da recesso quale reddito di «capitale», nella convinzione che il riferimento contenuto nell’art. 20-bis, all’art. 47, co. 7, Tuir determini congiuntamente due attributi distinti:

1. la qualificazione del «reddito di partecipazione» come reddito di capitale;

2. la quantificazione del reddito da recesso con le disposizioni valevoli per il reddito di capitale.

L’omogeneità di pareri dottrinari che si è creata a favore della teoria del reddito da recesso come reddito d’impresa non sembra supportata da valide giustificazioni. Analizzando le norme, infatti, si può sostenere che si tratta di reddito di capitale, esattamente come prima dell’introduzione dell’art. 20-bis, Tuir. Quest’ultima norma, come vedremo, non è stata in grado di risolvere la questione, lasciando la medesima incertezza che esisteva prima del correttivo Ires.

• una seconda soluzione, sostenuta dalla più recente dottrina e prassi, ritiene invece che il rinvio operato dall’art. 20-bis, Tuir si limiti solo a «quan-tificare» il reddito imponibile mediante l’applicazione delle norme previste per la tassazione dei redditi di capitale e pertanto il reddito da recesso sia da intendere come reddito d’impresa.

In definitiva l’espressione «reddito di partecipazione» starebbe ad indicare che trattasi di reddito di impresa in una società di persone, e non, invece, utile di partecipazione da attrarre nei redditi di capitale.

Un autore, in particolare,[5] ritiene che se il trattamento del reddito da recesso delle società di persone avesse dovuto seguire un destino diverso da quello delle società di capitali il Legislatore avrebbe più agevolmente rinviato nell’art. 20-bis, Tuir la validità dell’art. 47, Tuir per entrambe le tipologie societarie, cosa che evidentemente non fu fatta. La seconda soluzione, poi, richiamando la simmetria di imposizione, afferma che il reddito da recesso tassato interamente in capo al socio, nello stesso tempo costituisce componente negativo deducibile per la società mantenendone, quindi, la medesima natura.

R.M. 64/E/2008

La risoluzione commentata ha preferito omologarsi alla voce dei più sostenendo che «la differenza positiva (...), derivando dalla partecipazione in una società di persone, assume natura di reddito d’impresa». Ciò determina dirette conseguenze nel trattamento fiscale da riservare alle somme percepite, in quanto se tale reddito fosse d’impresa, lo stesso sarebbe tassato interamente, senza alcun abbattimento d’imponibile. Più conveniente, per il contribuente, sarebbe invece la soluzione da noi difesa che, interpretando il reddito da recesso come reddito da capitale, vedrebbe le somme percepite tassate al 40% [6] (se la partecipazione è qualificata) o sottoposte a ritenuta del 12,5% (se la partecipazione non è qualificata).

Una seconda conseguenza in merito alla tipologia dì reddito cui afferire il reddito da recesso si riproduce anche sul momentum di tassazione, in quanto se il reddito da recesso è inteso come reddito d’impresa, tali somme saranno tassate per competenza. Diversamente si applicherà il principio di cassa. A tale riguardo si rammenta la risposta 7.12 contenuta nella C.M. 13 febbraio 2006, n. 6/E, che chiarisce «come si evince anche dalla relazione illustrativa al decreto correttivo Ires, la componente reddituale compresa nell ‘importo percepito dal socio uscente e determinata secondo le regole dettate dall’art. 47, comma 7, del Tuir, in quanto compatibili, derivando dalla partecipazione in una società di persone, assume natura di reddito d’impresa e deve essere tassato in capo al socio uscente secondo il generale principio di com-petenza che sottende alla determinazione di tale reddito».

Luci e ombre sulla soluzione sostenuta dalla recente risoluzione

L’omologazione che vede la maggioranza della dottrina e della prassi sostenere che il reddito da recesso sia reddito d’impresa non ci convince pienamente. Il nostro scetticismo muove anche dall’osservare che laddove la partecipazione fosse detenuta in una società semplice, ad esempio per l’esercizio in associazione di uno studio professionale, [7] il reddito non sarebbe universalmente d’impresa, bensì da lavoro autonomo. [8]

Come noto le società semplici determinano il proprio reddito addizionando i redditi che promanano dalle categorie previste dall’art. 6, co. 1, Tuir, ad esclusione dei redditi d’impresa.[9] Ne consegue che tali redditi, casomai, dovrebbero considerarsi quali redditi diversi e non d’impresa.

Alcuni autori[10] sostengono che il reddito in parola sia configurabile anche come capital gain in quanto del tutto equivalente - da una prospettiva fiscale -alla plusvalenza che il socio realizzerebbe vendendo la propria quota.

Si osservi, inoltre, che i contenuti dell’art. 20-bis, Tuir, non sono per nulla nuovi rispetto a quanto già disponeva l’art. 6, D.P.R. 42/1988. Il recente articolo di innovativo ha solo la frase terminale che disciplina la tassazione dei redditi di partecipazione applicando, in quanto compatibili, le disposizioni dell’art. 47, co. 7, Tuir «indipendentemente dall’applicabilità della tassazione separata». A noi pare che questa coda terminale della norma non abbia rivoluzionato nulla e sia invece inespressiva in merito a qualsivoglia attribuzione di tassonomia reddituale. Esaminando le norme appare evidente come il «correttivo Ires» (D.Lgs. 247/2005) nulla abbia aggiunto a quanto già esisteva prima e non sia quindi determinante sulla questione.

I sostenitori della seconda tesi affermano invece che l’utilizzo della locuzione «reddito di partecipazione» esprima appartenenza dello stesso nella categoria dei redditi d’impresa in quanto, diversamente, si sarebbe utilizzata l’espressione «utile da partecipazione» per intendere tale reddito, quale, di capitale. Anche questo è un argomento fragile, perché il rimando operato dall’art. 20-bis, al co. 7, art. 47, afferma esattamente il contrario. Dispone, infatti, che «le somme o il valore normale dei beni ricevuti dai soci in caso di recesso (...) costituiscono utile per la parte che eccede (...)» con evidenza che il rinvio dell’art. 20-bis ricorda un concetto tipico del reddito di capitali piuttosto che del reddito d’impresa. Quanto affermato dalla R.M. 64/E/2008 non appare, in conclusione, pienamente condivisibile o quanto meno universalmente applicabile. Se l’intenzione del Legislatore era quella di parificare il reddito da recesso al reddito d’impresa ci si sarebbe aspettato una formulazione diversa e meno criptica.

Prospettiva della società: aspetti fiscali

Merito della risoluzione in commento sta nell’aver chiarito, in capo alla società, il trattamento fiscale della «differenza da recesso» corrisposta al socio recedente, questione sulla quale non vi era mai stata una posizione convergente, ma due tesi maggioritarie, in risposta ad altrettanti interpelli forniti dall’Agenzia delle Entrate.[11]

Una prima soluzione, molto rigida, era sostenuta in una Dre della Regione Lombardia del 2005 che riteneva il recesso del socio come mera operazione sul capitale, senza ripercussioni sul conto economico, con conseguente indeducibilità dal reddito d’impresa delle somme corrisposte a titolo di «differenza da recesso». La ratio di tale interpretazione si delineava nel convincimento che gli atti tra società e soci, essendo interni, non sono produttivi di reddito. La «differenza da recesso», pertanto, non rappresenterebbe uno scambio con soggetti terzi con la conseguenza che il costo, privato del requisito di inerenza di cui all’art. 109, Tuir, sarebbe indeducibile. [12]

Una seconda tesi, più elastica, contenuta in una Dre della Regione Campania del 2003,[13] interpretava la possibilità di dedurre la differenza di recesso, sulla base del principio di simmetria e divieto di imposizione di cui all’art. 163, Tuir in quanto, ciò che è tassato in capo al socio, deve poter essere dedotto dalla società.

La recente risoluzione interviene sulla questione in commento, chiarendo che la «differenza da recesso» è costo deducibile dal reddito della società in quanto:

• le plusvalenze e l’avviamento, una volta realizzati, saranno tassati in capo ai soci superstiti quali componenti positivi di reddito;

• gli utili in corso di formazione alla data di recesso, congiuntamente a quelli conseguiti nell’esercizio, saranno tassati per trasparenza in capo ai medesimi soggetti.

La considerazione che si desume dalla risoluzione è che il costo sia deducibile per rispetto del principio di simmetria, laddove così non fosse si concretizzerebbe un caso di doppia tassazione del medesimo reddito.

Ci chiediamo se tali considerazioni siano riproponibili anche sposando la tesi, da noi caldeggiata, che ritiene, in capo al socio, la «differenza da recesso» quale reddito di capitale e non reddito d’impresa. Un siffatto comportamento comporterebbe una simmetria imperfetta, ai sensi dell’art. 163, Tuir, in quanto il reddito del socio è tassato limitatamente (40% se la partecipazione è qualificata - 12,50% se la partecipazione non è qualificata), mentre la società può dedurre interamente il costo afferibile alla «differenza da recesso» rimborsata al socio. Ciò, tuttavia, sembra comunque sostenibile dato il particolare regime di tassazione previsto per il reddito di capitale. Se la società, invece, non potesse dedurre interamente il costo, lo stesso provento sarebbe tassato (parzialmente) due volte, ciò in piena violazione dell’art. 163 citato. A noi pare quindi preferibile la prima soluzione che non incorre in alcun divieto esplicito, potendosi quindi conciliare con la soluzione da noi proposta.

I concetti esposti trovano applicazione in una utile esemplificazione: si immagini che il 1° gennaio del 2000 tre soci costituiscano la società di pulizie Splendid S.n.c con un versamento di capitale per complessivi € 20.000 così suddiviso:

Conferimenti

Euro

Quota capitale sociale

Sig. Tizio

10000

50%

Sig. Caio

6000

30%

Sig. Sempronio

4000

20%

II 15 giugno del 2007 il sig. Caio, per motivi di salute e come previsto dallo statuto, intende esercitare il diritto di recesso a far data dal 15 settembre. A seguito della comunicazione ricevuta dal sig. Caio per raccomandata, gli amministratori 1 approntano una situazione patrimoniale da cui emerge che il valore di mercato della società è di € 40.000 determinato come segue:

Situazione patrimoniale ai 15 settembre 2007

Euro

Capitale sociale

20.000

Utili esercizi precedenti da bilancio *

6.000 (utili fiscali 7.800)

Utile in formazione da bilancio *

3.000 (utile fiscale 4.000)

Avviamento

11.000

Totale

40.000

* Il costo fiscale della partecipazione, nella generalità dei casi, non coincide quasi mai con il valore fiscale della stessa poiché il reddito civilistico viene sottoposto alle correzioni di natura fiscale, in aumento e diminuzione. Al fine di simulare tale risultato si considerino anche le seguenti variabili aggiunte:

• utili fiscali degli esercizi precedenti: € 7.800 (variazione in aumento dell’imponibile di 1.800)

• utile fiscale m formazione: € 4.000 (correzione fiscale in aumento di 1.000).

Al sig. Caio, quindi, in ragione della propria quota partecipativa pari al 30% del capitale sociale, spetteranno € 12.000 (pari a 40.000 x 30%). In realtà questa somma, al netto della componente «patrimoniale» che come anticipato non è tassabile, sarà oggetto di tassazione separata (oppure ordinaria per opzione[14]) per il valore così determinato:

Sig. Caio: «differenza da recesso»

Euro

Quota socio sig. Caio ( = 40.000 x 30%)

12.000

Quota capitale (= 20.000 x 30%)

-6.000

Utili fiscali esercizi precedenti

- 2.340 (= 7.800 x30%)

Totale

3.660

Determinato l’imponibile, la tassazione potrà avvenire in due modi:

- Prima tesi: «differenza da recesso» inteso come reddito di capitale: la plusvalenza del socio è tassata al 40% essendo la partecipazione qualificata. [15] La plusvalenza sarà quindi tassabile per 1.464 = 3.660 x 40%;

- Seconda tesi: «differenza da recesso» inteso come reddito d’impresa: la plusvalenza è tassata senza alcun abbattimento in maniera separata compilando il quadro RM, salvo l’opzione per la tassazione ordinaria, e quindi completando i quadri RH ed RN, previa rinuncia nel quadro RM alla tassazione separata.

Sulla corretta contabilizzazione del Modello Unico si rammenti la recente C.M. 18 giugno 2008, n. 47[16] che ha risolto i dubbi interpretativi allorquando il socio intenda rinunciare alla tassazione separata. La prassi ora citata, infatti, afferma che «in mancanza dei requisiti per accedere alla tassazione separata (...), il socio persona fisica non imprenditore dichiara l’”eccedenza da recesso “ nel quadro RH del modello Unico PF, fra i redditi di partecipazione in società di persone, indicando quale percentuale la quota di partecipazione al reddito della società al momento del recesso. Il codice fiscale del soggetto che ha erogato l’indennità va riportato nella sezione prima, rigo RH1 (o seguente), colonna 1».

Per completezza sintetizziamo i valori rilevanti in capo alla società riprendendo l’esempio già proposto.

Gli effetti in capo alla società saranno i seguenti:

Valore liquidato al socio uscente 12.000 (= 40.000 x 30%)

di cui

Capitale netto - 6.000 (= 20.000 x 30%)

Riserve di utili esercizi precedenti - 1.800 (= 6.000 x 30%)

Differenza = 4.200

Appare evidente che la società contabilizza un costo di 4.200 contro un utile rilevato dal socio di 3.660: ciò non deve apparire come un’anomalia poiché la società determina il costo con riferimento ai valori contabili, mentre il socio deve considerare il prezzo di acquisto della quota. Stante le diverse basi di determinazione, i valori non sono tra loro comparabili.

CONCLUSIONE

Se la risoluzione in commento ha il merito di aver sciolto ogni dubbio sulla deducibilità della «differenza da recesso» da parte della società, non altrettanto convincenti ci sembrano le motivazioni che portano a considerare il reddito del socio recedente quale reddito d’impresa. Contro l’omologazione suggerita dalla maggiore dottrina e dalla prassi più recente proponiamo, in ogni caso, un’interpretazione diversa, convinti che in assenza di una qualifica «legale» del reddito de quo non sia contestabile interpretarlo, come noi facciamo, quale reddito di capitale. Si ricorda, comunque, come l’Amministrazione finanziaria la pensi, almeno per il momento, diversamente.



[1] Introdotto dal D.Lgs. 18 novembre 2005, n. 247 (c.d. «correttivo Ires») e che ha così abrogato l'art. 6, D.P.R. 4 febbraio 1988, n. 42.

[2] Il decreto citato si occupa di disciplinare la riforma dell'imposizione sul reddito delle società, a norma dell'art. 4. L. 7 aprile 2003, n. 80.

[3] In tal senso si veda l'art. 163, Tuir che dispone «la stessa imposta non può essere applicata più volte in dipendenza dello stesso presupposto, neppure nei confronti di soggetti diversi».

[4] Appare del tutto ininfluente, quindi, la data dì acquisto della partecipazione, in quanto la condizione va monitorata sulla società e non sul socio recedente

[5] R. Lunelli, «Recesso da società di persone - Una disciplina fiscale ancora alla ricerca di conferme», ne il Fisco, n. 33/2008, fasc. 1, pagg. 5125 e segg.

[6] Dal 1° gennaio 2009 elevato al 49,72%.

[7] Sull'argomento si è espressa recentemente la R.M. 10 aprile 2008, n. 142/E rammentando che il Tuir accomuna le associazioni professionali alle società semplici in quanto le prime presentano elementi costitutivi simili alle seconde.

[8] Criticabile è anche la relazione illustrativa del «correttivo Ires» che qualifica il reddito da recesso come universalmente da impresa affermando «la disposizione qualifica come reddito di partecipazione, e quindi come reddito di impresa, il differenziale percepito all'atto dell'evento (recesso, liquidazione, eccetera)». In tal senso si veda E. Fossa, «Aspetti fiscali del recesso del professionista dallo studio associato», in Diritto e Pratica delle Società, Il Sole 24 Ore, n. 10/2008 che in merito all'indennità di recesso accordata al socio recedente da studio associato afferma «questo compenso non è altro che la naturale proiezione delle componenti ordinarie all'attività svolta dal singolo professionista associato nella fase in cui operava nell'ambito dell'organizzazione».

[9] C. Bianco, in Contabilità, Finanza e Controllo, Il Sole 24 Ore, n. 6/2006 pagg. 558 e segg. sostiene che qualora il reddito da recesso dalla società semplice sia costituito solo da taluni beni, esempio fabbricati posseduti da più di cinque anni, stante il fatto che la vendita di tali beni non dà luogo ad un reddito imponibile, l'operazione risulta irrilevante ai fini delle imposte sui redditi.

[10] Fra questi M. Varesano e D. Stevanato, in Dialoghi di Diritto Tributario, n. 10/2007pagg. 1283 e segg., affermano che il reddito da recesso sia appunto un capital gain cioè un reddito diverso di natura finanziaria «la classificazione in reddito diverso pare essere quella più corretta anche dal punto di vista teorico: infatti, come è noto, i capital gains si differenziano dai redditi di capitale in quanto non hanno carattere predeterminato e non costituiscono i frutti naturali e conseguenti ad un impiego di capitale (come sono invece interessi e dividendi, i quali sono comunque sempre positivi), ma hanno carattere aleatorio e "speculativo", e dipendono dalla capacità dell'operatore di anticipare le tendenze del mercato».

[11] Per approfondimenti si veda L. Lovecchio, «Recesso al buio per le società di persone», ne II Sole 24 Ore, del 24 ottobre 2005.

[12] Analogamente, e cioè contro la deducìbilità del surplus da recesso (da S.r.l), sì era pronunciata la Dre dell'Emilia Romagna 6 marzo 2007, prot. 11489, commentata da G. Gavelli ne II Sole 24 Ore del 30 agosto 2007, che afferma «d'altro canto, sottolinea la Dre, l'art. 109, comma 9, lettera a) del Tuir prevede l'indeducibilità di ogni forma di remunerazione che comporti la partecipazione ai risultati economici della società e l'art, 47, comma 7 stabilisce che la differenza tra l'ammontare ottenuto dal socio e il costo fiscalmente riconosciuto della partecipazione ha natura di utile che, nel caso di specie (persona fisica con partecipazione qualificata) diviene imponibile nell'anno di riscossione limitatamente al 40% dell'importo». Appare quindi poco logico, in definitiva, sostenere che sì possano avere comportamenti fiscali diversi a fronte di situazioni simili, cioè la parteci¬pazione al risultato economico di una società. A nostro avviso, in ogni caso, poco importa la natura giuridica della società, in quanto per una motivazione di ordine sistematico della norma, se la differenza di valori è reddito di capitale in una società a responsabilità limitata, lo dovrebbe essere anche in una società di persone. Ove così non fosse, e cioè se si configurasse una eccezione rispetto a quello che sì attenderebbe logicamente dalla norma, la stessa lo avrebbe dovuto dire in maniera espressa, ma così non è stato. Non sì capisce, infatti, perché un trattamento diverso dovrebbe essere riservato allo stesso socio nella situazione in cui la partecipazione fosse detenuta in una società di persone. E cosa accadrebbe, ad esempio, se si decidesse di trasformare la società (da personale in società di capitali) prima di formulare l'intenzione di recedere al solo fine di contenere l'imponibile? Appare quindi provato che per società di persone e società di capitali nulla cambia, sotto questo aspetto.

[13] Nello stesso senso si rimanda alle C.M. 17 maggio 2000, n. 98/E e C.M. 21 settembre 1999, n. 189/E e alla R.M. 24 maggio 1995, n. 127/E.

[14] Essendo la società Splendid S.n.c costituita da più di cinque anni.

[15] Se si fosse trattato di partecipazione non qualificata si dovrebbe applicare la ritenuta secca del 12,50% su 3.660.

[16] Si fa riferimento alla circolare C.M. 18 giugno 2008 n. 47, emanata in occasione delle risposte fornite con la stampa specializzata.