Quote di società di persone. Cessione infrannuale. Ripartizione degli utili
di Giuseppe Rebecca e Francesca Tessaro
La Settimana Fiscale, N. 3, 18 gennaio 2001
Una questione tributaria non ancora del tutto risolta riguarda l'imputazione dei redditi prodotti dalle società di persone, nel caso di cessione infrannuale di quote. Analizziamo tre fattispecie:
a. cessione di quote a nuovi soci;
b. cessione di quote tra soci;
c. variazione di quote di partecipazione agli utili tra i vecchi soci, con o senza modifiche alle quote di partecipazione al capitale.
Cessione di quote a nuovi soci
In caso di cessione infrannuale delle quote a nuovi soci si deve stabilire a quale socio, e in che misura, imputare gli utili della società, alla fine dell'esercizio in cui è avvenuta tale cessione. Si pensi al caso di una s.n.c. con tre soci A, B, C.; nel corso dell'anno il socio C cede la sua quota di partecipazione al capitale al nuovo soggetto D.
Inizialmente due erano gli orientamenti, in contrapposizione:
- imputazione degli utili della società per intero ai soli soggetti che avevano la qualifica di socio alla data di chiusura dell'esercizio, e quindi al cessionario della quota (in base alla situazione al 31.12). Riprendendo l'esempio, gli utili andrebbero attribuiti ai soggetti A,B,D;
- imputazione degli utili ai soci in proporzione alla durata del periodo di partecipazione nel corso dell'anno, quindi sia al cedente sia al cessionario. In relazione all'esempio l'utile relativo alla quota ceduta dovrebbe essere ripartito tra i soggetti C e D in proporzione alla durata di detenzione della quota stessa.
Si ritiene che la questione sia stata da tempo definitivamente risolta dalla Corte di Cassazione con la sentenza 23 febbraio 1994 n. 8423 (in senso conforme, Decisione Commissione Tributaria Centrale n. 3220 del 24 aprile 1991). La Cassazione ha precisato che, in caso di cessione di quote di società di persone nel corso dell'esercizio, gli utili si imputano per intero al soggetto che sia socio al momento dell'approvazione del rendiconto (socio cessionario), e non certamente ad entrambi i soci (cedente e cessionario) in misura proporzionale alla durata del periodo di partecipazione alla società nel corso dell'esercizio. Infatti, il diritto agli utili sorge soltanto in capo al soggetto che è socio al momento dell'approvazione del rendiconto; inoltre, la produzione del reddito da parte della società, seppure progressiva in linea teorica, non è certamente continua ed uniforme nel tempo; non è quindi razionale ipotizzare un frazionamento del reddito in base al tempo di possesso della quota. Va poi considerato che l'acquirente della quota comunque già sa che a fine anno dovrà dichiarare l'intero reddito derivante da quella quota, e ne avrà anche tenuto conto nella stessa valutazione della quota che ha inteso acquistare.
Osservazioni alla sentenza della Corte di Cassazione 23.2.1994 n. 8423
La citata Sentenza introduce un elemento di incertezza; si afferma infatti che i redditi della società vanno attribuiti ai soci esistenti al momento dell'approvazione del rendiconto, e non alla data di chiusura dell'esercizio. Seguendo alla lettera l'interpretazione della Cassazione, l'utile della società andrebbe imputato esclusivamente al socio cessionario anche nel caso in cui il mutamento nella compagine sociale fosse avvenuto tra la data di chiusura dell'esercizio e la data di approvazione del rendiconto. Questa tesi non convince assolutamente in quanto, se appare razionale far riferimento alla situazione al 31 dicembre, non troviamo ragione alcuna per spostare il riferimento alla data di approvazione del rendiconto. Si deve infatti tenere presente che non si è nell'ambito delle società di capitali, ove il dividendo è deliberato dall'assemblea che si tiene appunto l'anno successivo, ma nell'ambito delle società di persone: la tassazione non è legata al criterio della cassa, come per i dividendi delle società di capitali, ma al concetto della trasparenza, secondo cui l'utile della società è ripartito tra i vari soci, in proporzione alla quote da ciascuno detenute. Si dovrà pertanto fare riferimento, al di là di quanto affermato dalla Cassazione, alla situazione al 31 dicembre.
Peraltro le stesse istruzioni alla dichiarazione dei redditi delle società di persone (Mod. 750) richiedono di indicare nel quadro M (dati relativi ai singoli soci) coloro che rivestono la qualità di socio alla data di chiusura dell'esercizio, e non dunque alla data di approvazione del rendiconto, di modo che questa sembra ormai l'impostazione corrente. Quest'ultima è valida sia dal punto di vista civilistico (l'approvazione del rendiconto della società è fatto accertativo e non costitutivo del diritto agli utili sorti a fine esercizio), sia sotto il profilo impositivo, rilevando il momento della maturazione, e non quello della percezione del reddito d'impresa prodotto dalla società. La percezione è quindi del tutto ininfluente, ai fini della tassazione del socio.
Cessione di quote fra soci
La cessione di quote tra gli stessi soci non è disciplinata in modo preciso.
Nemmeno da un punto di vista civilistico tali argomenti sono specificatamente trattati. L'articolo 2263 c.c. si limita a porre, peraltro in via meramente dispositiva, il principio di proporzionalità alla base della disciplina legale della partecipazione agli utili e alle perdite. L'articolo dispone infatti che "le parti spettanti ai soci nei guadagni e nelle perdite si presumono proporzionali ai conferimenti. Se il valore dei conferimenti non è determinato dal contratto, esse si presumono eguali". Secondo taluni autori, per analizzare il caso di cessione di quote fra gli stessi soci sarebbe necessario rifarsi all'art. 5, comma 2, del TUIR (CFF 2 5105). Tale articolo stabilisce che "le quote di partecipazione agli utili si presumono proporzionate se non risultano determinate diversamente dall'atto pubblico o dalla scrittura privata autenticata di data anteriore all 'inizio del periodo di imposta". Quindi, la variazione posta in essere influirebbe sulla determinazione dell'utile da imputare ai soci solo dall'anno successivo. Alla fine dell'esercizio in corso, secondo tale interpretazione, i soci dovrebbero dichiarare il reddito proporzionalmente alle quote possedute all'inizio del periodo di imposta, non dando rilevanza alcuna ad atti nel frattempo intervenuti tra gli stessi soci.
L'articolo 5 del Testo Unico si riferisce però unicamente alla limitata fattispecie (trattata successivamente) in cui vengono modificate solo le percentuali di partecipazione agli utili e alle perdite, permanendo invece immutata la partecipazione al capitale. Nel caso ora analizzato, al contrario, si ha una reale variazione di quote di partecipazione al capitale tra soci, e di questa variazione se ne dovrà tenere conto. Consideriamo un esempio una s.n.c. con tre soci, in cui il socio A abbia una quota di partecipazione al capitale del 40%, ed i soci B e C possiedano entrambi con una partecipazione del 30%. Ipotizziamo che B venda a C una quota pari al 10%. Al 31 dicembre risulta quindi che A detiene una quota pari al 40%, B al 20% e C al 40%.
In questo caso si ritiene perciò che tale variazione abbia effetto dall'esercizio stesso in cui la cessione venga posta in essere, non certamente dall'esercizio successivo. Alla fine dell'esercizio i soci dovranno, quindi, dichiarare l'utile in proporzione alle quote possedute in quel momento.
Variazione della quota di partecipazione agli utili
Questa fattispecie, invero più particolare, si verifica allorché, in una società di persone, i soci modificano la loro quota di partecipazione agli utili o alle perdite, senza però che necessariamente avvengano anche cessioni di quote di capitale.
Formuliamo due esemplificazioni, una con sola variazione delle quote di partecipazione agli utili, e un'altra con contemporanea variazione delle quote di capitale. Una società di persone ha quattro soci al 25%, con corrispondente partecipazione agli utili. Ipotizziamo una variazione delle quote di partecipazione agli utili, che diventano le seguenti: 10%,10%,40%, 40%; la nuova e diversa suddivisione sarà operante solo per i redditi prodotti nell'anno successivo, mentre per i redditi prodotti nell'anno in corso si manterranno invece le precedenti quote di partecipazione agli utili (25% ciascuno).
Tale caso è appunto disciplinato dal già citato articolo 5, co. 2, D.P.R. 917/1986. Parte della dottrina (si veda "Le imposte sui redditi nel Testo Unico", di Leo, Monacchi, Schiavo) giustifica questa soluzione normativa richiamandosi alle previsioni riguardanti l'impresa familiare (Circolare Ministeriale, 19/12/1986 n. 40 prot. N. 9/2146). Il Ministero delle Finanze, nella citata circolare, aveva precisato che la necessità di redigere un atto pubblico o una scrittura privata autenticata in data anteriore all'inizio del periodo d'imposta sussisteva solo nell'ipotesi in cui si volesse procedere ad una nuova determinazione delle quote di partecipazione agli utili, ferma restando la composizione soggettiva dei partecipanti all'impresa familiare. Nel caso, invece, di variazione in corso d'anno dei partecipanti all'impresa, l'atto, comunque necessario, produceva effetti sin dallo stesso periodo di imposta, lo stesso criterio è stato adottato per le società di persone. E' però necessario fare una distinzione tra il caso della cessione di quote e il caso di diversa partecipazione agli utili. La differenza di trattamento tra la cessione da parte del socio di quote ad altri soci ed il caso di un altro socio che si vede variata la percentuale di partecipazione agli utili, pur mantenendo le stesse quote di capitale, non viene adeguatamente giustificata.
Una motivazione proposta è quella dell'intenzione di evitare manovre elusive, mirate a redistribuire l'utile tra i soci in modo arbitrario, modificando le quote di partecipazione agli utili al momento opportuno. In particolare, si vuole evitare l'imputazione degli utili ai soci con la minore aliquota marginale Irpef. Ricordiamo come il "vecchio" articolo 5 del Tuir (Dpr 597/73) non prescrivesse espressamente che l'atto di modifica delle quote di partecipazione all'utile dovesse avere data anteriore all'inizio del periodo di imposta; questa specificazione è stata infatti aggiunta con il nuovo art. 5 (DPR 917/86) (CFF 2 5105). Prima di questa modifica, infatti, un meccanismo elusivo talvolta praticato dai contribuenti consisteva nel vincere la presunzione di proporzionalità tra le quote di capitale e le quote di partecipazione agli utili semplicemente stipulando un atto dichiarativo dei soci, anche alla vigilia del termine del periodo di imposta, per trasferire l'onere tributario da un socio a un altro.
Questo determinava semplicemente una diversa quota di partecipazione agli utili prodotti dalla società.
Nemmeno questa giustificazione è però sostenibile al fine di motivare il diverso trattamento dei due casi analizzati, innanzitutto perché è chiaro che soci più lungimiranti, in grado di prevedere il risultato di esercizio, possono aggirare ugualmente la norma, dichiarando, prima dell'inizio del periodo di imposta, la voluta partecipazione nei guadagni e nelle perdite. Motivo ancor più importante, anche la cessione delle quote a nuovi soci potrebbe avere la stessa ragione elusiva; si pensi al caso di cessioni di quote tra familiari. Tale diversità di trattamento, se può apparire comprensibile nel caso di recesso, morte o esclusione di un socio, non altrettanto convincente appare nel caso di ingresso di nuovi soci perché, come già accennato, l'inserimento di nuovi soci non garantisce l'assenza di elusione.
Secondo altri autori è opportunamente disposto che tutti i trasferimenti di quote di partecipazione agli utili, attuati separatamente dalla fonte produttiva, cioè dalla quota societaria, non siano rilevanti, per l'anno in corso, ai fini di una diversa imputazione del reddito. Infatti tali trasferimenti vanno classificati come atti di disposizione del provento reddituale, e come tali, considerati ininfluenti in ordine all'iscrivibilità soggettiva dello stesso. In tal modo giustificano la presunzione di proporzionalità della quota di partecipazione agli utili al valore dei conferimenti. Anche noi siamo dello stesso avviso; la partecipazione agli utili è solo un criterio di determinazione del reddito del socio, che giustamente va conosciuto anteriormente al periodo di imposta. Quindi in presenza di variazioni di partecipazione agli utili tra soci, l'effetto sarà differito all'esercizio successivo all'atto; nel caso di cessione di quote, questa ha invece effetto immediato.
Consideriamo ora il caso di una società con tre soci, il cui capitale è così ripartito: socio A 30%, socio B 40%, socio C 30%. La partecipazione all'utile è la seguente: socio A 50%, socio B 25%, socio C 25%.
Durante l'esercizio viene stipulato un atto che varia la partecipazione al capitale sociale, ma non varia le quote di partecipazione all'utile. In base al nuovo atto il socio A possiede perciò il 20% del capitale, B il 50%, C il 30%. Le
quote di partecipazione all'utile rimangono invariate (50% ad A, 25% a B, 25% a C).
In tal caso ci si chiede come vada ripartito il reddito dell'esercizio in corso.
Anche in questo caso la questione verte sull'interpretazione del più volte analizzato art. 5 del TUIR. Un'interpretazione letterale dell'articolo in esame porterebbe a considerare la presunzione di uguaglianza tra le quote di partecipazione al capitale e le quote di partecipazione all'utile superabile solo con un atto pubblico o scrittura privata che deve coincidere con l'atto di costituzione della società ovvero recare una data anteriore all'inizio del periodo d'imposta.
Fattispecie |
Imputazione dell'utile |
Cessione quota a soggetto esterno società |
Imputazione del reddito ai soci esistenti a fine esercizio (31/12 e non all'approvazione del rendiconto) |
Cessione quota tra soci |
Imputazione del reddito ai soci in base alla partecipazione posseduta a fine esercizio Effetto immediato |
Variazione delle quote di partecipazione agli utili, ferma la partecipazione al capitale |
Imputazione del reddito ai soci in base alla precedente quota di partecipazione all'utile Effetto differito all'esercizio successivo. |
Variazione della quote di partecipazione agli utili con contemporanea variazione delle quote di partecipazione al capitale |
Imputazione del reddito ai soci in base alla precedente quota di partecipazione all'utile, indipendentemente dalla variazione delle quote di capitale intervenute tra soci (ipotesi più probabile). Effetto differito |
Questa interpretazione non appare però né logica né corretta. Sembra, invece, più logica una ripartizione dell'utile basata sulle invariate quote di partecipazione allo stesso. L'atto stipulato dai soci non è chiaramente finalizzato ad una diversa imputazione dell'utile; tanto meno è ipotizzabile una ragione elusiva, visto che le quote di partecipazione agli utili non vengono variate dall'atto stipulato tra i soci. Quest'ultimo mostra palesemente l'intenzione dei tre soci di lasciare immutate le quote di partecipazione all'utile. Quindi anche per l'esercizio di stipulazione dell'atto la quota di partecipazione all'utile rimane per il socio A del 50%, per B del 25%, per C del 25%.
Una ipotesi problematica è rappresentata dalla contemporanea variazione delle quote di capitale e delle quote di partecipazione all'utile. Si ipotizza una partecipazione al capitale da parte del socio A per il 20%, da parte del socio B per il 40% e da parte del socio C per il 40%, mentre le quote di partecipazione all'utile sono rispettivamente: A 50%, B 25 % e C 25%.
Nel corso dell'esercizio i soci stipulano un atto che varia sia le quote di partecipazione al capitale sia le quote di partecipazione all'utile. In base al nuovo atto, A partecipa al capitale per il 20%, B per il 50% e C per il 30%; le nuove quote di partecipazione all'utile sono invece: A 45%, B 15% e C 40%.
La norma non tratta questo caso; rimane quindi il dubbio su come debba essere imputato fiscalmente l'utile nell'esercizio di stipulazione dell'atto tra i soci. L'atto, per quanto riguarda la variazione delle quote di partecipazione al capitale, ha effetto immediato, quindi dall'esercizio stesso. Il problema riguarda invece la imputazione dell'utile. Se la validità dell'atto fosse anche fiscalmente immediata, l'utile andrebbe così ripartito tra i soci: A 45%, B 15% e C 40%. Occorre però tenere in considerazione il disposto dell'art. 5 del TUIR. Ci si chiede allora se si debbano applicare le percentuali dell'esercizio precedente (A 50%, B 25%, C 25%) (CFF 2 5105) oppure si debba considerare il principio di proporzionalità della quota di partecipazione all'utile alla quota di partecipazione al capitale. In tal caso l'utile viene così ripartito: A 20%, B 50% e C 30%, in base appunto alle nuove quote di partecipazione al capitale stabilite dall'atto stipulato tra i soci nell'esercizio in corso.
Riteniamo che la ripartizione dell'utile dovrebbe restare inalterata, per l'esercizio in corso e perciò: A 50%, B 25%, C 25%. L'effetto della variazione delle quote di partecipazione agli utili deve quindi essere differito; soluzioni alternative, pur possibili non paiono, infatti, del tutto convincenti.