Caparra trattenuta: è da tassare?
di Giuseppe Rebecca
commercialistatelematico.com - 26 novembre 2019
L’Amministrazione Finanziaria si è da tempo pronunciata perla esclusione da tassazione di una caparra confirmatoria trattenuta dal promittente venditore, per effetto di inadempimento da parte del promissario acquirente.
Per traslato, la stessa esclusione si avrà nel caso di inadempimento del venditore, per il 50% della caparra (doppia) restituita dal promittente venditore.
La Risoluzione n. 1856 del 27 gennaio 1982 dell’Amministrazione Finanziaria è stata molto chiara, e ha “concluso per la non imponibilità della ritenzione, ancorché in presenza di un fatto economicamente rilevante, in quanto avente carattere meramente risarcitorio non configurante ai fini fiscali un “incremento di ricchezza”.
Il caso era relativo ad un preliminare di cessione di un pacchetto azionario da parte di un privato. L’Amministrazione Finanziaria, nell’escludere tale caparra trattenuta dalla tassazione in modo estensivo, non ha posto limitazione alcuna, senza tra l’altro indagare se l’atto di cessione delle azioni sarebbe stato o meno soggetto (come a nostro avviso era) a tassazione e senza nemmeno porre distinzioni sul tipo di caparra.
La esclusione varrebbe quindi sempre, indipendentemente dal tipo di atto da cui deriva la caparra trattenuta, e questo indipendentemente anche dalla tassazione o meno di tale atto, ai fini delle imposte dirette.
E tale tesi si deve quindi ritenere valida anche per un preliminare di compravendita immobiliare.
La caparra penitenziale e la Cassazione 2016
La Cassazione, con la sentenza n. 11307 del 31 maggio 2016 si è pronunciata su un caso di caparra trattenuta da un privato per inadempimento del promissario acquirente, ritenendolo tassabile, al contrario di quanto invece affermato dall’Amministrazione Finanziaria.
Segnaliamo fin da subito, come poi, nel 2019, la Cassazione abbia cambiato parere, come si vedrà.
Si trattava di una caparra penitenziale, e non confirmatoria, relativa ad una vendita di terreno agricolo, evidentemente tassabile (altrimenti il caso nemmeno si sarebbe posto).
La Cassazione ha così confermato le due precedenti sentenze che riguardava lo specifico caso (l’ultima, la CTR della Calabria n. 1824/4/14 depositata il 9 ottobre 2014 ).
“La penale è assoggettabile ad imposizione diretta, in quanto la prestazione principale rimasta ineseguita (cessione dell’immobile) avrebbe costituito reddito ai sensi dell’art. 67, comma 1, del tuir”, e pertanto ha concluso per “la tassabilità della caparra incamerata costituendo la stessa il risarcimento della perdita dei proventi che, per loro natura e in base a quanto sopra considerato avrebbero generato redditi tassabili per un soggetto privato, con il conseguimento di una plusvalenza ai sensi dell’art. 67 del tuir”.
“L’inquadramento della clausola penale rientra pienamente nel disposto dell’art. 6, comma 2, del tuir, secondo il quale sono considerati redditi della stessa categoria di quelli perduti “le indennità conseguite a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di diritti”, concordando la dottrina nell’affermare che, in caso di inadempimento dell’obbligazione principale, la rilevanza dell’imposizione diretta della corresponsione della penale ha per base la visione civilistica della fattispecie come essenzialmente risarcitoria”.
Si osserva come venga utilizzato il termine “clausola penale” anche se si trattava di caparra penitenziale.
Anche il Notariato (Studio 32/2017/T approvato dalla Commissione Ministeriale Tributaria del 9/3/2017 che tratta di plusvalenze immobiliari in generale) ha analizzato questo particolare aspetto, adeguandosi alla Cassazione 2016.
“L’imponibilità della caparra confirmatoria si verificherebbe solo nel caso in cui i ricavi derivanti dalla vendita o dalla prestazione non concretizzata, fossero risultati a loro volta imponibili. Secondo quanto stabilito dalla Cassazione più recente “(Cass. 11307/16, ancorchè riferita ad una caparra pertinenziale)”, infatti, avendo la caparra natura di risarcimento per il venditore che non ha concluso l’affare, risulterebbe imponibile come provento conseguito in sostituzione di quanto spetterebbe a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi (articolo 6 comma 2 del Tuir). Di fatto risulterebbe avere la medesima natura del reddito derivante dalla mancata vendita del bene immobile. La conseguenza è che se la vendita fosse stata conclusa, e il corrispettivo conseguito non avesse generato materia imponibile, anche la caparra acquisita, al pari della caparra imputata a prezzo, non sarebbe risultata assoggettabile a imposta.
Non si giustificherebbe la diversa rilevanza reddituale della stessa componente a seconda se la si imputi a prezzo oppure acquisita per inadempimento. Andrebbe tassata come lo sarebbe stato se il venditore avesse effettivamente venduto il bene promesso in vendita”.
Qualora si fosse in presenza di una vendita che sarebbe comunque stata soggetta ad imposte sul reddito, la caparra trattenuta in seguito all’inadempimento, sia essa confirmatoria oppure penitenziale costituisce reddito della stessa natura, tassabile quindi ex art. 67 lett. a) oppure lettura b), non certamente nella lettera c).
La Cassazione n. 27129/19
Ma ecco ora la recente ordinanza del 23 ottobre 2019 ( Cass. n. 27129/19) che cambia atteggiamento.
La somma versata a titolo di caparra penitenziale incamerata dal promissario acquirente, in caso di mancata stipulazione del contratto definitivo, non è assoggettabile a imposizione, non generando una plusvalenza tassabile.
La Cassazione ha escluso “in radice la possibilità di attribuire all’importo trattenuto dal promittente venditore, come caparra penitenziale per effetto dell’esercizio del diritto di recesso della società promittente acquirente, natura di “provento conseguito in sostituzione di reddito”, nella specie plusvalenza, quale reddito diverso, assoggettabile a tassazione […]. Va in ogni caso chiarito che la soggezione a tassazione dell’importo comunque incassato dal promittente venditore non può essere affermata attribuendo alla caparra penitenziale una funzione risarcitoria che le è estranea, non potendosi al riguardo convenire con quanto invece esposto da Cass. sez. 5, 31 maggio 2016, n. 11307 (non massimata). Non essendo in fatto contestato che nella fattispecie in esame l’incasso da parte del promittente venditore dell’importo di euro 84.545,00, considerato dall’Ufficio come plusvalenza tassabile, si configuri come corrispettivo del diritto di recesso attribuito alla promittente acquirente e da quest’ultima esercitato, la chiara differenza sul piano testuale tra caparre penitenziale, disciplinata dall’art. 1386 cod. civ. e clausola penale, di cui all’art. 1382 cod. civ., anche in relazione alla caparra confirmatoria di cui all’art. 1385 cod. civ., nonché sul piano sistematico (cfr., per tutte, Cass. sez. 3, 16 maggio 2006, n. 11356), impedisce di considerare la caparra incamerata come risarcimento della perdita dei proventi che, per loro natura, avrebbero generati redditi tassabili in ragione del conseguimento di una plusvalenza (come invece ritenuto dalla citata Cass. n. 11307/16)”.
Quindi decisione molto chiara e netta.
La caparra penitenziale trattenuta non costituisce reddito, come peraltro aveva affermato anche la stessa Amministrazione Finanziaria ancora nel 1982.
La caparra penitenziale
Un breve approfondimento relativamente alla fattispecie caparra penitenziale, sia per le affinità con la caparra confirmatoria, sia per il trattamento che la Cassazione le ha riservato.
La caparra penitenziale (art. 1386 c.c.) è un negozio giuridico accessorio con il quale le parti si attribuiscono, unilateralmente o reciprocamente, un diritto di recesso ad nutum dal contratto, versando contestualmente l’una all’altra una somma di denaro quale corrispettivo per l’esercizio del diritto di recesso. La parte che recede dal contratto perde così la caparra data o deve restituire il doppio di quella che ha ricevuto. La somma eventualmente trattenuta, o pretesa nel doppio, costituisce la controprestazione dovuta dalla parte che ha evidentemente esercitato il diritto di recesso.
La differenza sostanziale tra le due caparre (confirmatoria e penitenziale) è che con la caparra penitenziale le parti sono libere di recedere, previo pagamento dell’importo stabilito come caparra (o restituire il doppio di quanto incassato), senza poter richiedere né l’esecuzione specifica né tantomeno eventuali danni.
Nel caso della caparra penitenziale, il recesso non è giustificato dall’inadempimento della controparte, ma costituisce esercizio di diritto, ossia del diritto di pentirsi di avere concluso il contratto; la caparra penitenziale costituisce dunque il prezzo dell’esercizio di tale diritto.
Le nostre osservazioni
Come si è visto, la Cassazione non fa comunque distinzione alcuna tra caparra penale e caparra penitenziale.
Si è già detto che la “clausola penale” è quella clausola “con cui si conviene che, in caso d’inadempimento o di ritardo nell’inadempimento, uno dei contraenti è tenuto a una determinata prestazione” con “l’effetto di limitare il risarcimento alla prestazione commessa” (art. 1382 c.c.), mentre invero la caparra penitenziale, come abbiamo visto, è quella clausola che “ha la sola funzione di corrispettivo per il recesso” (art. 1386 c.c.).
E secondo la recente pronuncia della Cassazione, la caparra penitenziale trattenuta non costituisce reddito imponibile.
Ma a ben vedere tale importo non rientra in alcuna delle categorie tassabili, non potendo rientrare nemmeno in quella residuale di cui all’art. 67, comma 1, lett. l) non essendovi in senso proprio alcun “obbligo di fare, non fare o permettere” cui tale importo possa ritenersi collegato. E in ogni caso tale importo non può essere considerato sostitutivo o risarcitorio di danni consistenti nella perdita di proventi tassabili. Infatti, il recesso, è una facoltà che deriva da un patto liberamente inserito in un contratto per sciogliersi dagli obblighi di esecuzione (o di continuazione di esecuzione) di esso (art. 1373 c.c.). Ne consegue che l’esercizio di questa opzione non può ad alcun titolo essere considerato quale inadempimento foriero di danni da risarcire.
“La Cassazione conferma, che la “penale” per l’inadempimento di un contratto di compravendita immobiliare è imponibile per le persone fisiche che la ottengono poiché costituirebbe “ il risarcimento della perdita dei proventi che, per loro natura e in base a quanto sopra considerato avrebbero generato redditi tassabili per un soggetto privato, con il conseguimento di una plusvalenza ai sensi dell’art. 67 del TUIR ”. Ma è evidente, “come il provento che il privato avrebbe conseguito dal contratto di compravendita non sia “la plusvalenza” (reddito ascrivibile a una fattispecie prevista dal TUIR). Conseguentemente, con l’inadempimento del contratto che dà luogo alla percezione della penale il contraente non perde il diritto a percepire il reddito costituito dalla plusvalenza, ma semplicemente somme che avrebbero modificato la propria composizione patrimoniale. A niente rileva, poi, che tali somme avrebbero potuto comportare, a conti fatti, una plusvalenza imponibile: ciò che valorizza l’art. 6, comma 2 del TUIR, infatti, è la causa giuridica che la somma percepita ha rispetto alla vicenda negoziale in cui si inserisce e non le conseguenze fattuali che da tale somma possono derivare sotto altri profili non direttamente e immediatamente attinenti alla vicenda negoziale e risarcitoria stessa (così, chiaramente, anche l’ultimo periodo della ris. Min. n. 1856 del 1982, riferita alla diversa ipotesi di “caparra confirmatoria” ma indicativa in parte qua di un principio valido anche per la “clausola penale” e avente portata generale”. [1]
Ma anche si trattasse di clausola penale, le conclusioni non sarebbero diverse.
Circa la natura della clausola penale non vi è però uniformità di vedute, in dottrina e giurisprudenza. Abbiamo infatti, due correnti di pensiero, che comportano diversi effetti finali:
- secondo la giurisprudenza, la clausola penale ha natura risarcitoria, avendo la funzione di liquidazione anticipata del danno da inadempimento (Cass. 10 giugno 91 n. 6561; Cass. 9 novembre 2009 n. 23706 e Cass. 27 settembre 2011 n. 19702);
- secondo parte della dottrina, invece, la penale ha natura sanzionatoria-punitiva.
L’impresa che trattiene la caparra
Per l’impresa, la caparra trattenuta, costituisce una sopravvenienza attiva, e quindi componente positiva di reddito. Si è invero discusso unicamente sulla competenza temporale di tale componente positivo di reddito, se cioè il requisito della certezza sia acquisito al passaggio in giudicato di una sentenza, oppure fin dal momento della richiesta risoluzione contrattuale.
Per la tesi della anticipazione al momento della risoluzione, abbiamo CTR Milano del 30 maggio 2017 n. 2379/17, mentre di diverso avviso si ha CTP di Milano, n. 1890/42/15 del 27 febbraio 2015.
“Nel regime della risoluzione giudiziale il contratto si scioglie solo per effetto della sentenza, sicchè fino al momento in cui il giudice non accoglie la domanda il rapporto contrattuale persiste; alla pronuncia giudiziale si riconosce, pertanto, in tal caso, carattere costitutivo”.
“Come chiarito, ormai da tempo, la suprema Corte, la diffida ad adempiere, prevista dall’art. 1454 c.c., è un atto unilaterale recettizio che produce effetti indipendentemente dalla volontà di accettarla o meno. Essa costituisce un mezzo concesso dalla legge al contraente adempiente per conseguire, nei confronti di quello inadempiente, il vantaggio della risoluzione de iure del contratto, che non contenga la clausola risolutiva espressa e sempre che l’intimato non esegua la prestazione nel congruo termine che gli deve essere prefissato e che, in difetto di diverso termine convenzionale, non può essere inferiore a quindici giorni (Cass. 6/4/1973, n. 953)”.
Il momento in cui fiscalmente si realizza la sopravvenienza attiva per l’impresa è determinato, secondo la CTR, dalla semplice risoluzione del contratto mediante diffida ad adempiere, non invece nell’anno di accertamento giudiziale della debenza di tale pagamento.
Altri aspetti
L’entità stessa della caparra costituisce un’interessante questione. Se eccessiva, può comportare due effetti. Può essere considerata:
- totalmente nulla, e in questo caso la caparra va restituita alla parte che l’ha corrisposta;
- parzialmente nulla, e in questo caso è potere del Giudice ridurre la caparra nei limiti in cui la stessa risulta non eccessiva.
La Corte Costituzionale (ordinanza n. 248-21/10/2013) ha respinto la questione di legittimità relativamente all’art. 1385 c. 2 c.c.; nella fattispecie, la caparra versata dal promissario acquirente risultava pari a circa 1/3 del prezzo pattuito.
In altri casi, con caparra pari al 78% del prezzo del contratto preliminare, contratto peraltro caratterizzato anche dalla immissione nel possesso, è intervenuta la Cassazione (n. 13.495 dell’1 luglio 2015) stabilendo che nella fattispecie si trattava di acconti, piuttosto che di caparra, al di là delle diverse previsioni contrattuali, con le ovvie conseguenze del caso.
La deducibilità delle penali contrattuali
La deducibilità fiscale delle penali contrattuali è stata confermata sempre dalla Cassazione (n. 16561/2017).
La stessa Amministrazione Finanziaria (circolare 29/E/2011 ) è intervenuta relativamente alla determinazione del periodo di competenza. Dovrà essere rispettato il principio della certezza, della obiettiva determinabilità e ovviamente dell’inerenza.
Tale penale sarà deducibile nel periodo in cui si è verificato l’evento che ne ha dato origine.
Conclusione
In conclusione, non c’è uniformità di vedute, circa il trattamento fiscale della caparra trattenuta.
La risalente Risoluzione Ministeriale 1856 del 1982 era per la esclusione tout court da tassazione; la Cassazione (n. 11307/2016) dapprima si era pronunciata per la tassazione, solo poi, melius re perpensa, asserire esattamente il contrario, come precisato dall’ordinanza n. 27129/19.
E in questa situazione non del tutto chiara si muovono i rapporti economici.
[1] Francesco Farri, rivista di Diritto Tributario, Gli svarioni civilistici della Cassazione Tributaria sull’imponibilità IRPEF della caparra penitenziale.